Valerio Magrelli
C’è intorno una tale quiete che quasi si può udire
il tintinnare di un cucchiaino che cade in Finlandia
(I. Brodskij)
Ma perché sempre dietro la mia parete?
Sempre dietro, le voci, sempre
quando scende la notte iniziano
a parlare, latrano o addirittura credono
che sussurrare sia meglio. Mentre mi sento
questo filo d’aria fredda delle loro parole
che mi gela, che mi lega
e mi tormenta nel sonno.
Sempre dietro la mia parete. Ero
ai confini del circolo polare, e anche laggiù
una coppia piangeva nella sua stanza
oltre un muro trasparente, piangeva,
luminoso, tenero come la membrana
di un timpano, e io stavo lì vibrando
facevo da cassa armonica
alla loro storia. Fino a che, a casa mia,
hanno rifatto il tetto, le tubature,
la facciata, tutto, e battevano
ovunque, sopra, sotto, e battevano sempre
chiacchierando tra loro solo quando dormivo,
solo perché dormivo,
solo perché facessi da cassa armonica
alle loro storie.
Valerio Magrelli (Roma, 1957), da Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992)
Una epigrafe che mi è cara, per una poesia che ha ascendenze fonde nella tradizione italiana, dove non c’è solo il fulmineo ermetismo, ma si incontrano anche volute, festoni, spirali di pensieri collegati mirabilmente in poca ipotassi e molta paratassi: ricordiamo il Montale dell’Anguilla(a questo proposito, dello stesso Magrelli, si leggaChe la materia). Una poesia dove alla fine ci si trova in un altro posto, rispetto al luogo di partenza, dopo aver attraversato uno spazio che pareva ben delineato, avendo vagato al limite tra quello che è già esperienza nostra e quello che invece si apre all’inatteso, sorpresi di essere arrivati, in così poche righe, fin là.
Gian Mario Villalta