Come il partente invidia chi rimane!
Come felice, stabile,
si mostra il mondo a lui che lo contempla
con l’animo d’un esule, con occhi
di morituro.
Deciso all’addio,
egli è, pure indugiando, già in cammino
e fuori dalla vita.
Così a me tutto apparve, in ogni tempo,
come quelle città che salutai
verso sera,
mentre, partendo, già il ricordo urgeva,
o ch’io scopersi fervide e ridenti,
dall’alto d’un ponte,
passando in ferrovia,
rasentando i segreti delle case
col treno in corsa
che discioglieva i luoghi a me più grati
I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, questo strascico di morte che noi lasciamo vivendo i lugubri e durevoli ricordi, eccoli già apparire: melanconici e muti fantasmi agitati da un vento funebre. E tu non sei più che un ricordo. Sei trapassata nella mia memoria. Ora sì, posso dire che che m’appartieni e qualche cosa fra di noi è accaduto irrevocabilmente. Tutto finì, così rapito! Precipitoso e lieve il tempo ci raggiunse. Di fuggevoli istanti ordì una storia ben chiusa e triste. Dovevamo saperlo che l’amore brucia la vita e fa volare il tempo.
È la Liguria terra leggiadra. Il sasso ardente, l’argilla pulita, s’avvivano di pampini al sole. È gigante l’ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s’alternano per quelle fondi valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse. In quell’arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri! Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore.
Io pago tutto. Non c’è peccato ch’io non abbia finora debitamente scontato. Ho un organismo vitale che vuole, contrariamente al Diavolo di Goethe, vuole il Bene e fa il Male. Pensate quale puntualità e che liste di conti da saldare. Ai messi del Signore l’uscio della mia casa è sempre aperto. E spesso delle loro intimazioni, prevenendole, io stesso senz’attenderli mi faccio esecutore. Sì che quand’essi giungono ritto sull’uscio lo fermo e li rimando dicendo: Amici, sono anch’io cursore e complice di Dio. Che dunque venite a fare se il debito è già pagato ? Forse è perciò che una donna cattiva suole dire celiando ch’io sono un santo e innanzi di morire farò miracoli. Talvolta infatti io mi vedo come uno di quei poveri santi che sulle tele delle sacrestie stanno in adorazione della Vergine, inutilmente aspettando un suo sguardo. Ma vi dico, in verità, che volentieri darei, se pur l’avessi, una tanto gloriosa vocazione per un poco d’allegra umanità.
L’alito freddo e umido m’assale di Venezia autunnale, Adesso che l’estate, sudaticcia e sciroccosa, d’incanto se n’è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d’acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d’altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v’ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l’autunno veneziano. Così a Venezia le stagioni delirano. Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.
Giace lassù la mia infanzia. Lassù in quella collina ch’io riveggo di notte, passando in ferrovia, segnata di vive luci. Odor di stoppie bruciate m’investe alla stazione. Antico e sparso odore simile a molte voci che mi chiamino. Ma il treno fugge. Io vo non so dove. M’è compagno un amico che non si desta neppure. Nessuno pensa o immagina che cosa sia per me questa materna terra ch’io sorvolo come un ignoto, come un traditore.
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