Piogge così fitte amarognole spesse come un mare d’acqua aspro da attraversare piove sottili, ragnatele sparse sopra i muri piove, oceano di una stagione vecchia d’improvviso e sarà difficile, pensi, come un genovese, serrare le valige e dire andiamo a cercare un mondo altro quando l’ultima luce della scena è il porto la sua lanterna s’accende a vuoto non sai più distinguere le sue luci e l’acqua uno sciacquio lento che si fa sempre più fatica ad ascoltare. Che senso mai sarà partire se non sei capace di tornare? Boccaddasse e le sue ghiaie eterne bambole focacce zuccherose che s’ingeriscono a fatica come crepe mal chiuse e nuovi crolli. Tu ti aspetti ogni cosa dal tuo porto meno che resti muto davanti agli occhi.
Case e dei caseggiati monotona corsa tutta tesa ad una mantica data quotidiana incroci quasi parole quasi strade quasi sentieri insulti più o meno Eurialo e Niso senza tregue e colui che non ha ritorno confortati tutti dal profilo acuto e regolare di qualche zona artigianale Bauhaus riflesso stagionato male illanguidito, modernità che è dolore e mai silenzio ma solo guerra e qualcuno la cetra canta canto solo canto o dolore rimane dolore fermo e duraturo come pane.
Coi vetri chiusi si gira sbarrati finestrini dove mettere i visi come quelli dei bambini a forma di domande appese ad asciugare ai fili cosmici di biancherie stellari file di fluorescenti bellissimi luminari verdi, verdissime erbe e campi a cui domando gialli accalorati colori amori stupori. Si viaggia senza gelosie lasciando i rossi a brillare, i gialli, i bianchi a sfiorire Sembra sottrarsi il paesaggio alla risposta e scendendo per una sosta per ripulire la trasparenza vetrosa dei finestrini appannati dai nostri fiati si fa sosta, se nulla osta. C’è un rumore come un lento respiro un frullare d’ali di fondo sullo sfondo io mi chiedo e mi rispondo è il suono della partenza dei migranti così senza rimpianti non c’è grido avvertimento che possa farli tornare indietro e hai forza a dire che non vi sia un dolore un aspro sentimento in questo partire per quella, inesplorata, regione oscura? dai cui limiti non c’è un viaggiatore? che sappia tornare se non sottili spettri ma non sappiamo se non gridare un forte grido che fermi almeno i vivi
In memoria collector fungorum E perché tutto splende quasi senza luce, o ancor di più per la sua assenza oggetti fosfori , umili piccole cose assorte stordite che stordono negli ori nei bagliori Tu ritorni con queste luci come una memoria buona perconcui sentire e ancorarsi ancora ad una salvifica santità del quotidiano Ancora la luce che arriva di fianco obliqua e rende netto ogni suo colore Pomeriggio appena e un luogo in cui essere se possibile un se di sé un io, un piccolo segno. E’ buio e la lucentezza illimite scorge il tuo scendere insicuro lungo la schiena fradicia del colle: la frequenza delle piove fa pensare che l’annata sarà piuttosto buona
Chiara la voce, ampia la sala diceva la landa scompare giorno dopo giorno non rimane la landa va protetta tenuta perfetta come il luogo della fertilità del mondo. Ascoltavo stupefatto non v’è se non landa luogo al mondo con una così intensa biodiversa vita per ogni centimetro quadrato se non landa pullulare di cellule, biochimiche forme eterne e sparse e diverse di sperma a tutto raggio Fonte di vita quasi sesso puro rimodellato e divenuto terra che pensavo nemico di vita e di ogni ricchezza e invece nella sua nuda landità è salvezza anche quando scossa dall’aspro vento che piega ginepri e cardi piccola preziosa Scozia casereccia che sconfigge ogni bosco ogni casa delle fate e delle fiabe cara asprezza che ci sei amica. Fuori c’è vento ancora pioggia pioggia e sole ancora e vedo bambini che corrono moltissimi, a decine, nascono coi calzoni corti sulla landa luna park di sole e stelle terrestre salvezza ultraterrena canto d’amore al cielo e alla terra alle nuvole e alla luna piena.
a E.S. Qualcosa stride fra denti d’asfalto e s’incolora nei fiordalisi disordinati sparsi sui fianchi delle pensiline fra le erbe tra i filari dei vitigni nel lento disfacersi dei muri a secco E’ strana la morte quanto sia nel paesaggio fra gli steli e gli stami nei gialli delle stoppie adesso anche a Poklon (1) o su verso il Tabor nella strada contornata di pietre ormai disperse verso il divenire obliquo della lucentezza che rende ogni cosa trasparente e il paesaggio una necessità morale un bene in noi, che non perderemo almeno questo: il tuo lavorare dentro al paesaggio l’essere parte dar nome ai luoghi con l’oltraggio della lingua che è la lingua dei luoghi a cui forse serve appartenere piccoli luoghi impolverati che si fanno mondo barbaro e orizzonte dentro allo spazio delle tue mani. Torni in questo pensare al mondo che si fa, in cui noi siamo, contra fortuna mentre il taglio d’ombra cade sulla soglia bianca. (1) Poklon Tabor, microtoponimi del comune di Monrupino
Tra le quasi macerie di una casa forse ex Anna parla del padre che raccoglie legna nella brina vagando fra campi A voltarsi un tempo terreno Mani nella brina e pochi voli nei silenzi d’erba che sono ancora mani Il legno raccolto buttato veniva dalla gmajna dono duro duraturo d’oro da accarezzare con le mani inspessite dai geli. Io ricordo quel calore come un regalo di Natale l’intimità appena violata e già memoria su per i fianchi grassi del Volnik a bagnarsi il cotone blu del vestito Lì l’hanno trovato dopo un giorno come un bambino nel feto, raccolto e spento dentro un mite avvallamento E’ una cartolina dell’ottocento, Il Natale in cui avremmo sperato di poterci incontrare E’ il giorno in cui Anna parla del padre non so se esista o sia mai esistito forse sono io che vago alla ricerca di legna corrosa dalla piova e dal vento è il convincimento che la maceria sia più resistente e duratura di ogni altra muratura sia nel suo appartato esile esserci una metafisica esistenza un’essenza che balla proiettando ombre sui terreni resi duri dalle temperature (1) Legna da ardere, rami, in sloveno (2) Volnik collina non lontano da Trieste, chiamata pomposamente monte
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