È rimasto scritto sulla lavagnetta
tra le cose da non dimenticare.
Sale grosso multa carta da regalo
posta bollettino tacchi da pagare.
Dopo l’esame delle feci guarnizione
andare Verano per la cremazione.
Imparare a parlare dai bambini.
Inventare il plurale delle cose.
Un bau due tre quattro bai.
Dimenticare le coniugazioni
far cadere in terra il tempo.
Non camminarci sopra scalzi.
Non chiedere a un neonato
di salvare un padre una madre
altri viventi dal dolore. Non
dargli una bomba che ticchetta
per giocare a imparare qual è
il ritmo che fa il tempo.
Trattenere piuttosto il tormento
come si trattiene uno starnuto.
Voltarsi, poi lasciarlo andare.
In generale aspettare primavera.
A tre o quattro anni caricare il cannone
di parole e poi sparare. Quindi cercare
di vedere dov’è il mondo quando cade.
Raccoglierlo e poi catalogare. Il resto
del tempo a tutti i costi volerlo salvare.
Provare a non chiudere una frase,
lasciare uno spiraglio per chi vuole
entrare: che lo faccia senza chiave,
senza chiedere permesso, che metta
pure una parola dove crede. Stare
meglio quando s’intravede un nesso.
(“Ma che sia chiaro”, subito rispondo, in preda a un raptus di precisazione, “chiaro che o tu sei fuori dal gioco – perché ti interessi di altre cose; perché hai una fede che ti ingoia, sei una profetessa fuori patria; perché sei muta o tu muori dalla fame; oppure tu sei tutta dentro a quello: ma una carta ce l’hai per cambiar nome; metti, un sette di denari o un tre di coppe, riposto nell’orlo del calzone. Solo chi siede al tavolo può forse sterzare da una via già ribattuta: tu sei fra questi, credo e spero: e io. Ma ricordatelo, che tu non sia seduta e non seduta insieme; di fuori e dentro; sporta su un vero ultimo e sul mondo”). (“Non ridere se dico che tu, per mia fortuna, tu sei corrotta e porti una giustezza: e il nostro – è un lavoro di espiazione”). Vincenzo Ostuni (Roma, 1970), da Faldone Zero-Venti. Poesie 1992-2006 (Ponte Sisto, 2012)
Voglio poter un giorno esser marmorizzato senza più nervature o fili di tendini o vene. Soltanto malta aerea, nubilosa, calce spenta, la tunica striata da un vento che non soffia. Valerio Magrelli (Roma, 1957) da Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi, 1996)
Io sopporto ingiustizie dalla nascita, a cominciare ovviamente dalla nascita. Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, il nepotismo, le sopraffazioni fisiche o burocratiche, ogni variante dell’illegalità, e adesso anche il voto rubato per essere offerto al nemico! Ma la roulotte è troppo. Sequestrare la strada, impormi con violenza un’andatura non mia, occupare lo spazio di tutti solamente per sé: questo è troppo. Dov’è il rispetto per l’altro, per la sua libertà? Come è possibile essere tanto indifferenti verso il prossimo? IO, IO, IO, IO, IO, IO, IO, IO, IO, IO! E’ un io che precede l’avvento dei mammiferi, un io da rettili, da uccelli predatori. No, la roulotte è troppo. La roulotte è davvero troppo. No, no: è davvero troppo, la roulotte. Nota. La roulotte è accettabile negli Usa, dove il sistema viario prevede carreggiate di due, tre o quattro corsie. Di conseguenza il buon senso vorrebbe che in Italia, per non incorrere nel reato di “occupazione di suolo pubblico”, a un veicolo simile fosse permesso circolare esclusivamente in autostrada.Ciò detto, restano due domande: a) Vorrà dire qualcosa il fatto che la prima caravan, con il nome diWohnauto(“casa viaggiante”), vide la luce in Germania, nel 1931? b) Esisterà un possibile rapporto fra la prepotente annessione del terreno comune da parte della roulotte privata (“Anschluß”), e il dato biografico secondo cui, prima di dedicarsi alla sua egoistica invenzione, l’ideatore, Arist Dethleffs, lavorasse a lungo, come addetto alle vendite, nella fabbrica di fruste del padre? Valerio Magrelli (Roma, 1957)
Amo i gesti imprecisi, uno che inciampa, l’altro che fa urtare il bicchiere, quello che non ricorda, chi è distratto, la sentinella che non sa arrestare il battito breve delle palpebre, mi stanno a cuore perché vedo in loro il tremore, il tintinnio familiare del meccanismo rotto. L’oggetto intatto tace, non ha voce ma solo movimento. Qui invece ha ceduto il congegno, il gioco delle parti, un pezzo si separa, si annuncia. Dentro qualcosa balla. Valerio Magrelli (Roma, 1957), da Nature e venature (Mondadori, 1987)