Ti vedo
intrecciato tra i peccati che hai commesso e la tua bontà
celata, invisibile ai ciechi che ti attorniano,
abili a toccare la disperazione che il tuo volto
rigido vuole mostrare.
Sei come perso per sempre
annegato nella silenziosa condanna dei giorni
senza perdono.
Ma se ancora credi alla redenzione
tendi la tua mano pallida verso la mia.
Amore, se vuoi,
argino le crepe del tuo cuore
e ricucio la tua anima
come tu hai fatto con la mia.
Sogni. La speranza del tempo che fugge innamora. Il tepore è una promessa non nuova. Fuggi! La chiara atona scorza di alberi al supplice colora una cara curva di ignote distanze, una chiara corsa di curve nel sole. Ritorna! Odi l’unica voce che non si frantuma scritta a caratteri grandi dentro un’antica dimora (a valle è la notte, la morte già angelica e bruna). Contratta, esatta monotona e scura mentre ti scrivo ti sfiora. Remota immota tramonta la luna! Un tenue rivolo scivola, trema mesta una luce alla gola. Non so che spiraglio che fievole linea agevolmente rada, te morta, una siepe, la sete delle chiome d’aria già bruna che varia.
So, ma non troppo ormai piú di quanto era una volta una vera gioia. Si tocca ora una fiaba. Quanto di essa una staccionata era nell’aria, pure era la febbre. S’intersecò nel cielo, oltre te, un breve alito freddo, un batter folle oltre la tua speranza. Furono pelaghi sinuosamente smossi le nebbie dove andavano i cavalli nell’aria che si arcuò e si addensavano le chiome direttamente a valle, e, presso la riva dei ruscelli, erano fanciulli nell’autunno che fu simile a un addio.
Dalla riva alta dei fiumi parla una voce, scandisce un silenzio sacro come il primo urlo dei popoli feroci. Il lene vento parla. Una fronda si muove. Un bue lento la bianca anca sommuove. Immagine statuaria che migra dai monti sono. Verso quale nuova riva? In cerca di quali perduti beni? Ciò che ho creato in ordine leggendario si trova. Aspetterò la bianca spetrata notte: verso quali segreti millenni addurrà. Tutto è bianco e opaco. Che non abbia a inaridire la mia anima come la cenere del greto, come la nebbia irta de’ colli. Dall’aere dei colli viene fosca, grigia parvenza di numi. Verso quali beati destini mi chiama?
Si raccoglie una luce modesta e trepida leggiadra che ti aspetta o va in frantumi. Ritorna libera a te ritrovato, a caso, nel cielo de l’illusione e sa molte cose sul tuo ciglio asciutto. Le acque ebbero suono e un accorgimento rapido. Non sanno essere velieri e spire mosse del cielo vinto vuoto. Benché il sole arido si versa, io stanco, per virtú dei suoi vezzi, la vena albeggiante, reclina miro; e un ritmo era mellifluo e disadorno. Bianco alito era una donna, nuovo uno screzio era appena o uno spazio serrato umile che dorma.
Rimane fra me e te questa sera un dialogo come questo angelo a volte bruno in dormiveglia sul fianco. Non ti domando né questo o quello, né come da materne lacrime si risveglia di notte il tuo pianto. Se i tormenti sono tristi, l’edera non è mattina o si colora. Si vela o duole una viola e dondola nube odorosa su l’orizzonte lucida di brina. Ecco quanto di tanta vana speranza resta o fugge rapida o semplicemente, silentemente accade. I carnosi veli, i velli di bruma, le origini stellate assalgono l’aria, le tumide vene delle vie le ore. Non l’eco rimbalza due volte sulle rocce, su questo prato, ove sono rosse, e, di rosso in rosso, è vano il pallido velluto ora rosa ora smosso. Non si parla né triste né lieto; e presto o tardi, perché a fior di labbro gentilmente nel filo tenue dell’erba tristemente lacerando si risveglia la tua sera accanto, dolcemente io ti domando.
Con passi lunghi e col ciglio aperto faccio la scalinata grigia dei monti per vedere nuovo bianchissimo orizzonte come nel ciglio dell’anima s’e aperto. L’immensità è quieta, dorme: la trafugo dal dolore umano. Sento la fuga dei rimpianti vaticinare in fondo nel chiuso d’una siepe. Sono col piede chiuso alto sui monti. Parto.
Panorami grandissimi a perdita d’occhio si stendono, s’aprono nuovi orizzonti, si squarciano gole. Noi non sappiamo parlare. Dove siamo andati a cadere? Nel centro alluvionale della terra? L’occhio vacua da orizzonte a orizzonte e si spaura. Per questo siamo nati: per vedere nuovo profondissimo orizzonte, perché la nostra generazione non vada dispersa fra acini, fondi nebulosi, mostri furiosi, i cavalloni del mare. Lottiamo sottoterra e percepiamo.
L’opera non cade mai, non si frantuma, rimane eterna. Gioiosa o mesta, entusiasta e molteplice, rimanendo immutata ai colpi del tempo, è testimone di un tempo immortale. La sua nuda fronte rimane ferma, soda sotto i raggi del sole che l’indora fra i pollici fissi dell’universo. Da essa a volte cadono scintille che indorano la bruna chioma dei fanciulli che vanno a scuola svegliandoli dal letargo nel primo entusiasmo.
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