Hai più paura della pace che della guerra. Vuoi mappe che spieghino il mondo paludi conosciute di odio e non uscirne non rischiare non toccare con mano il boccio del cuore altrui visi occhi spalle piegate suoni portati dal vento. Hai paura della pace perché la pace è il cambio di rotta inversione assalto al muro la pace è pugno che accarezza fango che si crede casa casa con più stanze sorpresa di aprile. Neve che si scioglie è pace pace sul bilico vertigine con nastri tamburi nel dirlo e coraggio. Mi guardi l’arma in spalla e arma sei tu in ogni fibra di movimento nodoso così fragile nonostante il fucile che sembri un bimbo quando gioca ai soldati in riva al mare. Hai un piccolo peso tra gli occhi un peso che arde e consuma e braccia per l’amore la terra l’azzardo. Sei seme e frutto di stagione precoce. Offesa gioventù che alla gioventù si addice l’inquietudine, non il morire senza scopo.
Vita e amore a noi due Lesbia e ogni acida censura di vecchi come un soldo bucato gettiamo via. Il sole che muore rinascerà ma questa luce nostra fuggitiva una volta abbattuta, dormiremo Dammi baci cento baci mille baci e ancora baci cento baci e mille baci! Le miriadi dei nostri baci tante saranno che dovremo poi per non cadere nelle malie di un invidioso che sappia troppo, perderne il conto scordare tutto.
Vibra il colore sospeso, il sasso che rotola lento nell’acqua di luce. Il canto del cuore che muove infinito, la breve e sottile discesa del sole. Il giorno che muore, il bacio che luna raccoglie dal cuore.
di maglie tese è il mio setaccio: in trasparire rapido, quasi lampo di ghiaccio, vi fremono voci e volti di schiuma prima di ritornare a un alveo torbido come a un’improvvisa distante bruma troppo larghe le brecce per un errore ammaestrato a un silenzio senza tracce dal tempo e dal dolore da Lungo la traccia
La biondina è sul balcone, capo chino, ciglia basse, tra le pallide erbe grasse e il geranio vermiglione. L’aria, i muri, il rio deserto nel crepuscolo che muore sono fisi al nuovo fiore che Iassù risplende aperto. Lei però non ne sa nulla: monda attenta il suo giardi ciglia basse e capo chino. (Lei non è che una fanciulla Ora par che all’improvviso l’abbia alcuno nominata. Guarda intorno trasognata, leva al cielo il bianco viso. Gli occhi d’oro van cercande qualche ignota strana cosa nella luce dubitosa del crepuscolo amaranto. Ma nel cielo non c’è nulla; spenti i muri, chiuso il rio nel suo cupo dondolio. (Lei non è che una fanciulla.)
La piccola gioia cercata dipende dalla mia forza nel cercare, dal respiro che precede lo slancio, dal coraggio nel vedere le cose e nel vederle tutte così. La gioia è merito foga di pianta è il pigiare delle radici nella terra. La gioia è rischio di tornare. da L’UNDICESIMO GIORNO * D’attesa silenziosa vive il desiderio seme nella terra che bagno ogni sera al rito. D’attesa silenziosa s’illumina il pensiero lievita il profumo del pane e puro è il canto pulito dalla polvere di ieri. Dignitosamente copro il battito del cuore. * Puoi concederti trame di rughe ad assediarti gli occhi quando ridi il peso del collo nel camminare ondivago il brillìo nel moto dei capelli alle tempie. Io vedo cascate nelle tue braccia segni d’orizzonte a cingere stravaganti intese e poco importa che passi il tempo il tuo mutare mi è bellezza.
Gli uomini sono tutti uguali. Davanti alla legge, davanti a dio. Ma quando guardo gli altri fare le cose fatte bene bocca sicura e occhiate forti, salvarsi con naturale sana decisione e io non so da che parte prendermi, so che di fronte agli uomini gli uomini non sono tutti uguali. Vibrano le gocce di pioggia sul vetro della macchina. Hanno una pancia alcune un percorso da rio delle amazzoni quando vanno giù, una pronuncia. Poi sono la pioggia, sono l’acqua. Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), inedito
Quel tono era una Venere Che un arcaïco scalpello Creò ne’ suoi più fervidi Morsi d’amor col Bello; Oggi, marmoreo enigma Dall’olimpico stigma, Di tant’arte non resta Che un busto senza testa. Pur nelle tronche viscere La Dea non è ancor morta, Un’agonia di secoli La fece fredda e smorta, Ma nella nuda fibra Palpita, guizza, vibra, Quasi monco serpente, L’Eginetica mente. Così le fece il genio Le piaghe sue più grame, E le eternò il martirio Di Mosca e di Bertrame. Pur colle rotte braccia Quel torso ancor m’allaccia, E al secolo che raglia Sembra cercar battaglia. O monti! o cime candide Della serena Paro! Brezze marine! tremulo Irradiar del faro! Autunni e primavere Dell’erme tue scogliere! Delle tue dolci dune Albe! tramonti! lune! In alta pace estatica Tu là dormivi, o sasso, Nè a te giungeva l’alito Di questo mondo basso; Lenìan tua bianca grana Carezze di lïana, Ed albergavi il trillo D’un solitario grillo. E quando i due crepuscoli Splendean sull’orizzonte. Tu, coronando il placido Profilo del tuo monte, Lanciavi al ciel favilli Di quarzi e di lapilli Ed abbagliavi al piano L’errante mandrïano. Ma poi discese un’Attica Gente brïaca d’arte. Seminatrice prodiga Di monumenti e carte; Vider per la campagna La magica montagna E con gioia rubesta Ne distaccâr la cresta. Piombasti e fosti Venere. Fra citaredi e schiavi Per te strisciò la polvere Il folto crin degli avi; Avesti ara e ghirlande. Sacerdotesse blande, Languide danze e fumi Di roghi e di profumi. Se ti vedeva il libero Motteggiator d’Egina Che il genio avea del fäuno E la barba caprina, Per te molceva il riso Del suo beffardo viso E in dorica melòde Sciogliea sull’arpa un’ode. Poi t’ebbe Roma, emporio Di statue e di colonne, Teatro allor di Veneri Com’oggi di Madonne, Li cominciò la scoria Del tempo e della storia A macular con orme Di lepra le tue forme. Vivesti in mezzo al fremito Dell’orgie e nei triclini Dove fetèa la nausea Dei tracannati vini; Là, fra le turpi e gaie Follie delle ambubaie Con un osceno crollo T’hanno fiaccato il collo. Povera Dea! vanirono Allor profumi e canti, L’irriverente greculo Ti zuffolò davanti, Fosti bruttata al piede Con impudiche scede E una ciurmaglia sgherra Ti rotolò per terra. Sublimi tempi olimpici E putride cloàche, E baci di caleïdi, E sputi di lumache, Tutto hai provato, e l’asta Del santo iconoclasta E lo schiaffo plebeo Del porco epicureo. Ma noi questa prosaica Gente ch’or ti raccolse, Adoratrice instabile D’arti sfrenate o bolse, Oggi forse minaccia Quelle tue monche braccia Di più fiero dolore: Il restäuratore.
Mondo, mondo d’oro, io sono il tuo piccolo re. Quanto è bello e buono, tutto fu fatto per me. Pur ch’io mova un passo fiorisce ai miei piedi il terren. Prendo in mano un sasso ed ecco, una gemma divien. Mondo, dolce mondo io sono il tuo piccolo re. Giro, giro tondo: tutta la gioia per me. Bimbo, bimbo bello sono il tuo fratello. Fammi entrare un poco nel tuo caro gioco! So la tua magia :è la poesia.
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