Cambiando l’ordine degli addendi
il risultato cambia.
È diverso se arrivi prima tu
o prima il buio,
è diverso se arriva il giorno
prima ch’io mi sia addormentata
o quando ho finito i miei sogni.
Stanotte le ore mie insonni
le ho passate a innamorarmi di te
⎼ di nuovo:
ho provato l’appoggio della mia testa
sulla mano tua grande
e c’entrava alla perfezione,
e ho verificato l’incastro esatto
del mio bacino con il tuo inguine.
Poi ho provato il tuo petto
ed era comodissimo
e ho pensato
che se io mi appoggio su te,
grande, o invece tu su di me
cambia, cambia moltissimo:
cambiando l’ordine degli addendi
il risultato cambia.
Non muoverti,
resta come ipotesi
e non andare.
Cosa importa
che le cose debbano
essere come sono:
vero il vero
passato il morto
pianto l’amato?
Tu non muoverti,
resta come ipotesi:
è mia,
e non dovrai partire.
Ennesima attesa
in tardiva luce d’estate.
Se tu non tornassi
rimarrebbe prima sera
per sempre.
Con me
ferma qui ad ammirare
la lenta fine del giorno
e uomini e donne in perenne
apprestarsi a rientrare.
Se tu non tornassi
rimarrebbe prima sera
per sempre.
E venne poi un giorno
in cui tu non tornasti.
Ora vedo che il mondo si illude
che nascano e scorrano i giorni
come se gli anni potessero
ancora passare senz’altro,
pur senza segnare il tuo volto.
Io intanto ho rughe dipinte
così da far credere al mondo
che no, non è mai successo
ch’è prima sera per sempre.
Venerdì: taglio dei capelli
con luna crescente.
Sabato: pizza
e quarti di finale.
Domenica: corsa col cane
e lettura sul divano.
Lunedì: sei morto
mentre ti aspettavo.
Martedì: luna ancora crescente
recido i fiori che non riceverai.
Mercoledì e giovedì: ti cerco
ma la tua morte è un male ostinato.
Venerdì, sabato e domenica:
nel silenzio, i gesti sempre uguali.
Perduti nel tempo inesistente
dei giorni riconosco solo i nomi,
li ripeto fiduciosa come un mantra
si susseguono in un cerchio senza uscita
finché non mi sovviene l’inversione.
Lunedì: sfoglio la mia agenda
all’indietro, come un manga.
Domenica: giorno di riposo
io ti vengo a trovare
nel tuo tempo a ritroso.
Eri presente
al nostro primo bacio
e al mio primo
nudo al tuo cospetto.
Eri presente mentre scrivevi
la nostra data
sulle bacchette cinesi.
Eri presente
quasi ogni mattina,
poi ti sei distratto
a causa della morte
che pare proprio essere
un impegno assai gravoso.
Ti ho dato appuntamento
nel cuore dell’estate.
Il programma era dormire, stretti
vicino al fuoco proprio sul mare,
e poi nella notte camminare
sicuri, come maghi esperti
raccoglitori di stelle cadenti.
Tu non c’eri,
io ne ho riempito un cesto:
lo lascio sulla porta, acceso
nel caso tu dovessi
aver perso la strada.
Nell’allucinato plenilunio ———- la mia gazzella muove ———- leggera ———- per dirupati anfratti ———- a sterrare speranze sepolte ———- in cui morire. Ma quell’utopia suicida ———- è sale della terra, ———- è tremolante torcia ———- che illumina la storia ———- ben sapendone ———- il cieco disamore.
Una media di quattrocentottanta miliardi di battiti al minuto. E non ci metto gli animali che non so contarli. E lascio stare gli anni, e lascio stare i giorni e anche le ore. Quattrocentottanta miliardi di battiti mi bastano. Messi insieme fanno un gran rumore, un rumore infernale e nessuno se ne accorge. Patrizia Cavalli (Todi, 1947) da Datura (Einaudi 2013)
tu parli azzurro quando dici in mio favore la parola tu parli azzurro dentro il pianto che mi spaia gli occhi ma io sento la notte dolorarmi all’origine blandirmi sfinirmi prima del mattino delicato io slaccio dentro i sogni li faccio svelare via sciamano dall’intimo tu parla azzurro e ferma la porta girevole del mio ombelico e sbattimi lo slancio dentro io sento il dolore della sedia che partorisce il tarlo il dolore dell’erba che ferisce il bosco il tremendo odore della vita
siamo tutti una finzione siamo tutti nel Truman Show pattuglie del Grande Fratello identità di segnali impiantati sottopelle nella parte alta del pensiero mentre ami oralmente il tuo boyfriend mentre guardi il magrissimo comico occhialuto Wally Cox se sei a Parigi e ascolti Edith Piaf il curriculum digitale informa paziente l’agenzia governativa e ci puoi giurare non ci puoi fare niente dall’adolescenza alla morte d’infarto sarete insieme zelantemente per sempre l’unico modo per salvarsi è restare invisibili far finta di non essere mai nati
Sembra quasi che tu non abbia vissuto tutti gli anni sconnessi dopo la rivoluzione, o l’ipocrisia ingenua di invecchiare – forse questa gabbia, la tua sicurezza, o un pezzo di vita come carne comprata. Se sapessi quale filo invisibile, quale corda tesa e bugiarda… anch’io sotto l’alluvione sotto al peso incalcolabile? anch’io vorrei smettere di dirmi io. Maria Borio (Perugia, 1985), da L’altro limite (Lietocolle-Pordenonelegge, 2017)
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