Viaggiamo come gli altri, ma noi torniamo verso il nulla… come se il viaggio fosse una strada di nubi. Sepolti i nostri cari tra rami d’albero, all’ombra delle nuvole. Alle donne dicemmo: partorite cento anni per completare questo viaggio di un’ora verso un paese a un metro dall’impossibile. Partiamo nella cassa del flauto, dormiamo nelle tende dei profeti emergiamo dalle parole degli zingari, misuriamo la nostra esistenza con il becco di un’upupa e cantiamo per dimenticare la distanza, laviamo la luce della luna. La tua è una lunga strada, sogna sette donne per portare in spalla questa lunga strada, scuoti le palme per sapere i nomi e da quale madre nascerà il figlio di Ğalāl. Il nostro è un paese di parole. Parla, parla, perché io appoggi il cammino su una pietra vera. Il nostro è un paese di parole. Parla, parla, per conoscere la fine di questo viaggio.
Verde la terra del mio poema, verde e alta… Mi appare dal fondo del mio abisso… Sei straniero,nel tuo significato. Ti basta essere là,solo,per divenire tribù. Ho cantato per pesare lo spazio sprecato nel dolore della colomba, non per spiegare ciò che Dio dice all’uomo, non sono profeta per attribuirmi la rivelazione e proclamar che il mio abisso è un’ascensione.
Il nemico che prende il tè nella nostra capanna ha una giumenta nel fumo e una figlia con sopracciglia folte, occhi nocciola e, sulle spalle, una chioma lunga come una notte di canzoni. La sua immagine non lo lascia tutte le volte che viene da noi a chiedere il tè, ma non ci dice cosa fa lei di sera, né parla di una giumenta abbandonata dalle canzoni in cima alla collina…
Per descrivere il fiore del mandorlo non mi giovano né enciclopedie né vocabolari… le parole mi trascinano nelle insidie della retorica, la retorica ferisce il senso e loda la ferita come il maschile detta al femminile i suoi sentimenti, in che modo potrà risplendere allora il fiore del mandorlo nella mia lingua che ne è l’eco? Il fiore del mandorlo è trasparente come una risata d’acqua che dalla timidezza della rugiada sboccia sui rami… leggero come un bianco motivo musicale… debole come l’apparire di un’idea che spunta sulle dita e inutilmente scriviamo… denso come un verso di poesia che non può essere scritto con parole. Per descrivere il fiore del mandorlo devo visitare l’inconscio, guidato verso i nomi dei sentimenti appesi agli alberi. Qual è il suo nome? Qual è il suo nome nella poetica del nulla? Devo penetrare la gravità e le parole per sentirne la leggerezza quando diventano spettro sussurrante, così io divento loro e loro me, trasparenti e bianche. Le parole non sono patria e nemmeno esilio, sono, invece, la passione del bianco nel descrivere il fiore del mandorlo. Non neve né cotone, che cos’è dunque nella sua superiorità alle cose e ai nomi? Se l’autore riuscisse a comporre un brano che descriva il fiore del mandorlo, svanirebbe la nebbia sulle colline e un popolo intero direbbe: eccole, ecco le parole del nostro inno nazionale!
O voi, viaggiatori tra parole fugaci portate i vostri nomi, ed andatevene. Ritirate i vostri istanti dal nostro tempo, ed andatevene. Rubate ciò che volete dall’azzurrità del mare e dalla sabbia della memoria. Prendete ciò che volete d’immagini, per capire che mai saprete come una pietra dalla nostra terra erige il soffitto del nostro cielo. O voi, viaggiatori tra parole fugaci da voi la spada … e da noi il sangue da voi l’acciaio, il fuoco … e da noi la carne da voi un altro carro armato … e da noi un sasso da voi una bomba lacrimogena … e da noi la pioggia. è nostro ciò che avete di cielo ed aria. Allora, prendete la vostra parte del nostro sangue, ed andatevene. Entrate ad una festa di cena e ballo, ed andatevene. Noi dobbiamo custodire i fiori dei martiri. Noi dobbiamo vivere, come desideriamo. O voi, viaggiatori tra parole fugaci. Come la polvere amara, marciate dove volete ma non fatelo tra di noi, come insetti volanti. L’aceto è nella nostra terra finché lavoriamo, mietiamo il nostro grano, lo annaffiamo con le rugiade dei nostri corpi. Abbiamo qui ciò che non vi accontenta: un sasso … o una soggezione. Prendete il passato, se volete, e portatelo al mercato degli oggetti artistici. Rinnovate lo scheletro all’ upupa, se volete, su un vassoio di terracotta. Abbiamo qui ciò che non vi accontenta: abbiamo il futuro….e abbiamo nella nostra terra, ciò che fare. O voi, viaggiatori tra parole fugaci. Ammassate le vostre fantasie in una fossa abbandonata, ed andatevene. E riportate le lancette del tempo alla legittimità del vitello sacro o al momento della musica di una pistola ! Abbiamo qui ciò che non vi accontenta abbiamo ciò che non c’è in voi: una patria sanguinante un popolo sanguinante, una patria adatta all’oblio o alla memoria …. O voi, viaggiatori tra parole fugaci. È giunto il momento che ve ne andiate e dimoriate dove volete, ma non tra noi. È giunto il momento che vi ne andiate e moriate dove volete, ma non tra noi. Abbiamo nella nostra terra, ciò che fare il passato qui è nostro. È nostra la prima voce della vita, nostro il presente … il presente e il futuro nostra, qui, la vita …e nostra l’eternità. Fuori dalla nostra patria … dalla nostra terra … dal nostro mare dal nostro grano … dal nostro sale dalla nostra ferita …da ogni cosa. Uscite dai ricordi della memoria O voi, viaggiatori tra parole fugaci !….
Ci respinge la terra e ci costringe nell’ultimo varco ci spogliamo dalle membra per poter passare. Ci spreme la terra. Magari fossimo il suo grano per morire e Rinascere. Magari fosse madre nostra Perché abbia pietà di noi. Magari fossimo dipinti sulle rocce, che il nostro sogno porterà, come specchi. Abbiamo visto i volti Di chi verrà assassinato Dall’ultimo di noi, in difesa dell’anima! Abbiamo pianto sulle feste dei loro bambini. Abbiamo visto i volti di chi lancerà i nostri bambini dalle finestre di questo ultimo spazio. Specchi che la nostra stella appenderà! Dove andremo dopo le ultime frontiere? Dove voleranno le rondini dopo l’ultimo cielo? E dove dormiranno gli alberi dopo l’ultimo respiro d’aria? Scriveremo i nostri nomi Con vapore scarlatto, interromperemo il canto, perché lo completi la nostra carne lacerata. Qui moriremo, qui nell’ultimo passaggio, qui o forse qui, pianterà i suoi olivi il nostro sangue.
Fra Rita e i miei occhi si leva un fucile. Quelli che conoscono Rita, s’inchinano e pregano i suoi occhi di miele divino. Ho baciato Rita bambina, lei si è stretta a me, lo ricordo… I suoi capelli mi coprivano il braccio. Ricordo Rita come l’uccello ricorda la sua fontana. Oh, Rita! Un milione di immagini un milione di uccelli un milione di appuntamenti sono stati assassinati da un fucile. Il nome di Rita, festa per le mie labbra. Il corpo di Rita, nozze per il mio sangue. Per due anni, mi sono perduto in lei. Per due anni lei si è distesa sul mio braccio, uniti nel fuoco delle nostre labbra, siamo resuscitati per due volte. Oh, Rita! Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi, prima che si levasse un fucile? Oh, notte di silenzio! C’era una volta… Una luna è calata all’alba… Lontano, in occhi di miele E la città ha cancellato Rita e le canzoni… Fra Rita e i miei occhi, si leva un fucile.
Dove mi porti padre? Verso il vento, figliolo. Via dal pianoro dove i soldati di Bonaparte elevarono terrapieni per spiare le ombre sui bastioni vecchi di San Giovanni d’Acri. Un padre disse al figlio: non avere paura del fischio delle pallottole! Aggrappati alla terra e sarai salvo. Noi sopravviveremo, saliremo sui monti a settentrione, ritorneremo quando i soldati vanno a casa, lontano. – Dopo di noi chi abiterà la nostra casa, padre? – Rimarrà, figliolo, tale e quale noi l’abbiamo lasciata. Tastò le chiavi come fosse il suo corpo e si sentì sicuro. Passando una barriera di rovi, disse: ricorda, figliolo, qui gli Inglesi in croce, sulle spine di un fico d’India, per due notti intere misero tuo padre. Ma non parlò. Tu crescerai e agli eredi dei fucili racconterai di quel sangue versato sul ferro. – Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine, padre? – Perché dia vita alla casa, figliolo. Le case muoiono se parte chi le abita. L’eternità apre le porte da lontano ai viandanti della notte. Ululano i lupi delle terre desolate a una luna spaurita. E un padre dice al figlio: sii forte come tuo nonno, sali con me l’ultimo poggio delle querce, figliolo. Ricordati: qui il giannizzero è caduto giù dalla mula da guerra, tieni duro con me e ritorneremo – Ma quando, padre? – Fra un giorno, figlio, forse tra due. Un distratto domani dietro a loro masticava un lungo, notturno vento invernale. I soldati di Giosuè con le pietre della loro casa edificavano una cittadella. Erano ansanti sulla via di Cana. Qui passò un giorno nostro Signore, qui cambiò l’acqua in vino e a lungo parlò dell’amore, ricordalo domani. Ricorda i castelli dei crociati annientati dall’erba d’aprile alla partenza dei soldati.
Calza i tuoi sandali e cammina sulla sabbia che nessuno schiavo ha mai calpestato. Sveglia la tua anima e bevi alle sorgenti che nessuna farfalla ha mai sfiorato. Dispiega i tuoi pensieri verso le vie lattee che nessun folle ha osato sognare. Respira il profumo dei fiori che nessuna ape ha mai corteggiato. Allontanati dalle scuole e dai dogmi: i misteri del silenzio che il vento rileva alle tue orecchie ti bastano. Allontanati dai mercati e dalla gente ed immagina la fiera delle stelle dove Orione allunga la sua spada, dove sorridono le Pleiadi intorno alla fiamme della Luna, dove neppure un fenicio ha lasciato le sue tracce. Pianta la tua tenda negli orizzonti dove nessuno struzzo ha pensato di celare le sue uova. Se tu vuoi risvegliarti libero come un falco che plana nei cieli, l’esistenza ed il nulla sospesi alle sue ali, la vita, la morte.
A Damasco, so chi sono io in mezzo al traffico una luna splendente in una mano di donna mi conduce… a me. Mi conduce una pietra puruficata nelle lacrime del gelsomino poi dorme. Mi conduce la Barada povera nube spezzata. La poesia cavalleresca conduce a me: lì alla fine del lungo tunnel uno come me assediato dalla sua ferita accenderà un cero, così lo vedrai scrollare le tenebre dal suo mantello. Mi conduce il mirto che ha sciolto le trecce sui morti e scaldato il marmo. “Qui la morte è amore addormentato” conducono a me i poeti, udriti o libertini, sufi o blasfemi: se sei diverso conoscerai te stesso, allora sii diverso, troverai parole trasparenti sui fiori del mandorlo, e il celeste ti farà recitare la pace. Io sono io a Damasco, non un mio simile, non il mio fantasma. Io e il mio domani mano nella mano, volteggiamo in ali d’uccello. A Damasco cammino nel sonno, dormo camminando abbracciato a una gazzella. Non vi è differenza tra il suo giorno e la sua notte se non per le colombe. Li c’è la terra del sogno, alta, ma il cielo cammina nudo e abita tra la gente di Damasco…
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