Che il sacrario in memoria dei caduti ricordi invece di me: il suo compito è questo. Che il giardino in memoria ricordi, che il nome della via ricordi, che l’edificio celebre ricordi, che la casa di preghiera che porta il nome di Dio ricordi, che il rotolo avvolto della Legge ricordi, che l’orazione per i morti ricordi. Che le bandiere ricordino, questi variopinti sudari della Storia che avvolsero corpi divenuti polvere. Che la polvere ricordi. Che il pattume sulla porta ricordi. Che la placenta ricordi. Che la bestia dei campi e gli uccelli del cielo mangino e ricordino e che ciascuno ricordi Così potrò riposare.
Come un capitano, dopo il pranzo di gala, che agli ospiti mostra la sala delle macchine nel ventre della nave (belle donne lo hanno preteso), e per i gradini di ferro li conduce in basso, apre con metallici schianti gli sportelli, li richiude e quelli ammirano tutto il luccichio e tutto quel roteare e quel salire e scendere, così faccio vedere ai miei ospiti la stanza dei miei bambini, apro la porta, tacito la chiudo e sentiamo tre diversi respiri tre ritmi diversi nella stanzetta, che è l’infinito. E una piccola luce azzurrina brilla in alto sopra la porta.
Il mio amore ha una veste bianca e lunghissima, di sonno, d’insonnia e di nozze, va a sedersi la sera a un tavolino, sopra cui posa un pettine, due fiale, una spazzola, invece di parole. Dagli abissi della chioma pesca molte forcine e poi le mette in bocca, invece di parole. La scompiglio, lei si pettina nuovamente scompiglio. Poi che resta? Lei si addormenta invece di parole, e il suo sonno ormai mi conosce, scodinzola con la sua coda di sogni lanosi, il suo ventre s’è impregnato facilmente di tutte le funeste profezie della fine dei tempi. Io la sveglio: siamo gli umili strumenti di un difficile amore
Dove il bucato è appeso ad asciugare la gente non muore, non è alla guerra, resterà per lo meno due giorni o forse tre. Non sarà sostituita da altra gente, o sbattuta dal vento. Non è simile all’erba inaridita.
Mia madre cuoceva nel forno il mondo intero per me
in dolci torte.
La mia amata riempiva la mia finestra
con uva passa di stelle.
E le nostalgie sono racchiuse in me come bolle d’aria
nel pane.
Esternamente sono liscio, silenzioso e bruno.
Il mondo mi ama.
Ma i miei capelli sono tristi come i giunchi nello stagno
che va prosciugandosi.
Tutti i rari uccelli dalle belle piume
fuggono via da me.
In questi giorni penso al vento fra i tuoi capelli,
agli anni che fui nel mondo prima di te
e all’eternità che prima di te andrò a incontrare,
ai proiettili che non mi uccisero in battaglia
ma uccisero i miei amici,
di me migliori perché
non vissero oltre come me,
penso a te nuda davanti al fornello d’estate,
sul libro curva per leggere meglio
nella luce morente del giorno.
Vedi, abbiam vissuto più di una vita,
ora dobbiamo pesare ogni cosa
sulla bilancia dei sogni e sguinzagliare
ricordi che divorino ciò che fu il presente.
Vedi, pensieri e sogni in un intrico
di fili ci ravvolgono, in una rete mimetica,
e né Dio né i caccia in ricognizione
potranno mai sapere
ciò che vogliamo realmente
e dove il nostro passo è diretto.
Solo la voce che interrogando guizza
si alza ancora sulle cose e resta in aria sospesa,
anche se le granate l’hanno ormai ridotta
come una lacera bandiera,
come una nuvola squarciata.
Vedi, anche noi compiamo rovesciandolo
il cammino dei fiori:
da un calice iniziare tripudiante di luce,
scender giù con lo stelo sempre più cupo,
arrivare nella chiusa terra e attendere un poco,
e finire, radice, nel grembo, nell’oscuro.
In questi giorni penso al vento fra i tuoi capelli, agli anni che fui nel mondo prima di te e all’eternità che prima di te andrò a incontrare, ai proiettili che non mi uccisero in battaglia ma uccisero i miei amici, di me migliori perché non vissero oltre come me, penso a te nuda davanti al fornello d’estate, sul libro curva per leggere meglio nella luce morente del giorno. Vedi, abbiam vissuto più di una vita, ora dobbiamo pesare ogni cosa sulla bilancia dei sogni e sguinzagliare ricordi che divorino ciò che fu il presente. Traduzione di Ariel Rathaus
Qui molli le colline toccano il mare come s’incontrano due eternità. E le mucche che pasturano lassù ci ignorano, come fossero angeli. Anche il maturo aroma di melone in cantina profetizza la quiete. Il buio non combatte con la luce ma ci spinge avanti verso altra luce, e l’unico dolore è quello di non restare. Nella mia terra che vien detta santa non permettono mai all’eternità di essere eterna: l’hanno divisa in piccole fedi frazionata in territori di Dio sminuzzata in schegge di Storia acuminate che feriscono a morte. Delle sue quiete lontananze hanno fatto prossimità che freme di pena del presente. A Bolinas, sulla spiaggia, ai piedi dei gradini di legno vidi fanciulle dalle natiche nude sul ventre stese nella sabbia ebbre di regno sempiterno, e le anime in loro come porte si aprivano e chiudevano, si aprivano e chiudevano nel ritmo della risacca. Traduzione di Ariel Rathaus
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