Dicono alcuni che amore è un bambino,
e alcuni che è un uccello,
alcuni che manda avanti il mondo,
e alcuni che è un’assurdità,
e quando ho domandato al mio vicino,
che aveva tutta l’aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.
Fermate ogni orologio, tagliate il telefono,
Tenete il cane a tacere con un succulento osso,
Chetate i pianoforti e fra un rollìo smorzato
Sfornate il feretro, che i dolenti si accostino.
Che aeroplani lamentosi incrocino lassù
E scarabocchino sul cielo il messaggio È MORTO,
Mettete crespi nastri attorno il collo bianco dei piccioni,
Che i vigili indossino guanti di coton nero.
Era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e l’Ovest,
La mia settimana feriale e il mio riposo domenicale,
Il mio mezzodì, la mezzanotte, il mio discorso, il canto;
Pensavo ch’amore fosse eterno: Io, mi sbagliavo.
Ora, le stelle non servono più: spegnetele tutte;
Imballate la luna, e smantellate pure il sole;
Svuotate l’oceano, e sradicate il bosco.
Poiché nulla può venir ormai a niente di buono.
Dicono che questa città ha dieci milioni di anime. Alcuni vivono nelle ville, altri vivono in buche. Eppure non c’è posto per noi, mia cara, non c’è posto per noi.
Appoggia, amore, il tuo capo assonnato umano sul mio braccio senza fede; in cenere riducono le febbri e il tempo la bellezza individuale dei bambini pensosi, e la tomba mostra quanto sia effimero il bambino: ma fino all’alba dentro le mie braccia che la viva creatura s’abbandoni, colpevole, mortale, ma per me quella che sola ha intera ogni bellezza.
È questo il primo giorno mite di marzo, Più fragrante di momento in momento, Col pettirosso che cinguetta in cima al larice Che sorge accanto alla nostra casa. Aleggia nell’aria una benedizione Che sembra infondere un senso di gioia Agli alberi spogli, alle nude montagne Ed ai verdi campi erbosi. Sorella mia! Ho un desiderio: Ora che la nostra colazione è terminata, Fai presto, lascia le tue faccende mattutine, E vieni fuori a goderti il sole. Edward verrà con te, e ti prego, Presto, mettiti il tuo abito silvestre, E non portar libri, chè questo giorno Noi lo dedicheremo al riposo. Nessuna tetra parvenza sarà legge Per il nostro vivente calendario: Da oggi, amica mia, data per noi L’inizio dell’anno. Amore, che ora ovunque rinasce, Migra furtivo di cuore in cuore, Dalla terra all’uomo, dall’uomo alla terra, – E’ questa l’ora dei sentimenti. Ora un momento potrà darci di più Di cinquant’anni di ragionamenti; Le nostre menti succhieranno da ogni poro Lo spirito della stagione. Poche tacite leggi si daranno i nostri cuori Cui prestare lunga obbedienza; Per l’anno a venire prenderemo L’esempio da quest’oggi. E dal beato potere che aleggia D’Intorno, quaggiù e su in cielo, Trarremo la misura delle anime nostre, Accordandole alla nota d’amore. Orsù vieni, sorella mia! Vieni ti prego, Presto, mettiti il tuo abito silvestre, E non portar libri, chè questo giorno Noi lo dedicheremo al riposo.
Guardatela. Unica nel campo, Solitaria ragazza dell’altopiano, Che miete e fra sè canta! Fermatevi, o passate oltre in silenzio! Sola essa taglia e lega il grano Mentre canta una malinconica canzone. Udite, la valle immensa Trabocca del suo canto. Nessun usignolo mai cantò Più gradevoli note e spossate compagnie Di viandanti in qualche oasi ombrosa Nei deserti dell’Arabia; Mai si udì il cuculo Rompere a primavera i silenzi marini Con voce così seducente Nelle remote Ebridi. Chi mai mi dirà di cosa essa canta? Forse le dolenti note scorrono Per cose antiche, tragiche e lontane, Per battaglie d’epoche remote, O forse era un lamento più umile, Per faccende familiari, cose d’ogni giorno, Forse è un dolore normale, una perdita, un dispiacere Che è stato e potrà ricapitare. Qualsiasi il tema, la vergine cantava Come se il suo canto non dovesse mai finire: La vedevo cantare durante il lavoro E mentre si piegava sulla falce. Ascoltavo senza muovermi o parlare, E salendo la collina Portai nel cuore quella musica Ben oltre il momento che più non la sentii.
Vagavo solo come una nuvola che galleggia in alto, oltre valli e colline, quando all’improvviso ho visto una folla, una moltitudine di giunchiglie dorate, accanto al lago, sotto gli alberi, svolazzare e danzare nella brezza. Continue come stelle che splendono e scintillano sulla via lattea, si stendevano in una linea infinita lungo il margine di una baia. Ne vidi diecimila a colpo d’occhio che scuotevano le teste in una danza vivace. Le onde ballavano al loro fianco ma loro superavano le scintillanti onde in allegria un poeta non poteva che essere felice in una compagnia così gioconda io le fissavo sempre di più ma pensavo poco alla ricchezza che quello spettacolo mi aveva portato perché spesso, quando sto sdraiato sul mio giaciglio distratto o pensoso, loro lampeggiano su quell’occhio introspettivo che è la beatitudine della solitudine allora il mio cuore si riempie di piacere e danza con le giunchiglie
Il mio cuore esulta al cospetto dell’arcobaleno che sta nascendo: come venendo al mondo; come nel sapersi uomo; così, nello scoprirsi vecchio, mi sia data la morte! Il Bambino è padre dell’Uomo e siano i miei giorni l’uno all’altro stretti dal sentimento della natura.
Più a lungo non piangermi, quando sarò morto, del tempo che tu udrai la tetra lugubre campana avvertire il mondo che io sono fuggito da questo vile mondo ad abitare con i più vermi. Anzi, se leggi questi versi, dimentica la mano che li scrisse, perché io ti amo tanto che dai tuoi dolci pensieri vorrei essere dimenticato, se pensare a me allora dovesse addolorarti. Oh se, dico, il tuo sguardo cadrà su questi versi, quando io, forse, sarò mescolato con l’argilla, non arrivar nemmeno a ripetere il povero mio nome, ma lascia il tuo amore finire con la mia stessa vita; perché il saggio mondo non guardi dentro al tuo lamento e non ti schernisca per me dopo che me ne sarò andato.
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