Io sono la tua indomita gazzella, il tuono che rompe la luce sul tuo petto Io sono il vento sfrenato sulla montagna e il fulgore intenso del fuoco dell’ocote. Io scaldo le tue notti, accendendo vulcani nelle mie mani, bagnandoti gli occhi col fumo dei miei crateri. Io sono arrivata fino a te vestita di pioggia e di ricordi, ridendo la risata immutabile degli anni. Io sono l’inesplorata strada, la chiarezza che rompe la tenebra. Io metto stelle tra la tua pelle e la mia e ti percorro completamente, sentiero dopo sentiero, scalzando il mio amore, denudando la mia paura. Io sono un nome che canta e si innamora dall’altro lato della luna, sono il prolungamento del tuo sorriso e del tuo corpo. Io sono qualcosa che cresce, qualcosa che ride e piange. Io, quella che ti ama.
Quando il popolo ascolterà i passi del Cavaliere voglio uno sciopero dove incontrarci tutti. Uno sciopero di braccia, di gambe, di capelli, uno sciopero che nasca in ogni corpo. Voglio uno sciopero di operai, di colombe di autisti, di fiori di tecnici, di bambini di medici, di donne. Voglio un grande sciopero, che arrivi sino all’amore. Uno sciopero dove si fermi tutto, l’orologio, le fabbriche lo stabilimento, le scuole l’autobus, gli ospedali la strada, i porti. Uno sciopero di occhi, di mani, di baci. Un grande sciopero dove non sia permesso respirare, uno sciopero dove nasca il silenzio per ascoltare i passi del tiranno che si allontana.
Sempre questa sensazione d’inquietudine di attesa d’altro. oggi sono le farfalle e domani sarà la tristezza inspiegabile. La noia o l’ansia sfrenata di rassettare questa o quella la stanza, di cucire, andare qua e là a fare commissioni, e intanto cerco di tappare l’Universo con un dito, creare la mia felicità con ingredienti da ricetta di cucina, succhiandomi le dita di tanto in tanto, di tanto in tanto sentendo che mai potrò essere sazia, che sono un barile senza fondo, sapendo che “non mi adeguerò mai”, ma cercando assurdamente di adeguarmi mentre il mio corpo e la mia mente si aprono, si dilatano come pori infiniti in cui si annida una donna che avrebbe voluto essere uccello, mare , stella, ventre profondo che dà alla luce Universi splendenti stelle nove… e continuo a far scoppiare Palomitas nel cervello bianchi bioccoli di cotone, raffiche di poesie che mi colpiscono tutto il giorno e mi fanno desiderare di gonfiarmi come un pallone per contenere il Mondo, la Natura, per assorbire tutto e stare ovunque, vivendo mille e una vita differente… ma devo ricordarmi che sono qui e che continuerò ad anelare, ad affermare frammenti di chiarore, a cucirmi un vestito di sole, di luna, il vestito verde color del tempo con il quale ho sognato di vivere un giorno su Venere.
E Dio mi fece donna, con capelli lunghi, occhi, naso e bocca di donna. Con curve e pieghe e dolci avvallamenti e mi ha scavato dentro, mi ha reso fabbrica di esseri umani. Ha intessuto delicatamente i miei nervi e bilanciato con cura il numero dei miei ormoni. Ha composto il mio sangue e lo ha iniettato in me perché irrigasse tutto il mio corpo; nacquero così le idee, i sogni, l’istinto Tutto quel che ha creato soavemente a colpi di mantice e di trapano d’amore, le mille e una cosa che mi fanno donna ogni giorno per cui mi alzo orgogliosa tutte le mattine e benedico il mio sesso.
Tra le tue gambe il mare mi mostra strane scogliere coralline rocce superbe coralli magnifici contro la mia grotta di conchiglia madreperlata tu mollusco di sale segui la corrente l’acqua scarsa scopre le pinne mare nella notte con lune sommerse il tuo ondeggiare brusco di polipo focoso accelera le mie branchie il mio pulsare di spugna i cavalli minuscoli fluttuanti tra gemiti aggrovigliati in lunghi pistilli di medusa Amore tra delfini a balzi ti tuffi sul mio fianco leggero ti accolgo in silenzio ti guardo tra bollicine le tue risa cerco con la bocca spuma leggerezza dall’acqua ossigeno dalla tua vegetazione di clorofilla Dagli occhi argentati fluisce il lungo sguardo finale ed emergiamo da corpo acquatico siamo di nuovo carne una donna e un uomo tra le rocce.
Frantuma la luna tra le tue mani Falla a pezzi E cospargiti della sua polvere Fine e scura. Proteggiamoci dai simboli E dai sogni Respingiamo le insidie della vita con un duro schermo di realtà. Accettiamo il giorno e la notte attraversando il tempo con spalle rette e occhi ben aperti.
Dalla donna che sono, mi succede, a volte, di osservare, nelle altre, la donna che potevo essere; donne garbate, laboriose, buone mogli, esempio di virtù, come mia madre avrebbe voluto. Non so perchè tutta la vita ho trascorso a ribellarmi a loro. Odio le loro minacce sul mio corpo la colpa che le loro vite impeccabili, per strano maleficio mi ispirano; mi ribello contro le loro buone azioni, contro i pianti di nascosto del marito, del pudore della sua nudità sotto la stirata e inamidata biancheria intima. Queste donne, tuttavia, mi guardano dal fondo dei loro specchi; alzano un dito accusatore e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo e vorrei guadagnarmi il consenso universale, essere “la brava bambina”, essere la “donna decente”, la Gioconda irreprensibile, prendere dieci in condotta dal partito, dallo Stato, dagli amici, dalla famiglia, dai figli e da tutti gli esseri che popolano abbondantemente questo mondo. In questa contraddizione inevitabile tra quel che doveva essere e quel che è, ho combattuto numerose battaglie mortali, battaglie a morsi, loro contro di me – loro contro di me che sono me stessa – con la psiche dolorante, scarmigliata, trasgredendo progetti ancestrali, lacero le donne che vivono in me che, fin dall’infanzia, mi guardano torvo perchè non riesco nello stampo perfetto dei loro sogni, perchè oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile che si innamora come una triste puttana di cause giuste, di uomini belli e di parole giocose Perchè, adulta, ho osato vivere l’infanzia proibita e ho fatto l’amore sulle scrivanie nelle ore d’ufficio, ho rotto vincoli inviolabili e ho osato godere del corpo sano e sinuoso di cui i geni di tutti i miei avi mi hanno dotata. Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni. Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf: ma nei pozzi scuri in cui sprofondo al mattino, appena apro gli occhi, sento le lacrime che premono, nonostante la felicità che ho finalmente conquistato, rompendo cappe e strati di roccia terziaria e quaternaria, vedo le altre donne che sono in me, sedute nel vestibolo che mi guardano con occhi dolenti e mi sento in colpa per la mia felicità. Assurde brave bambine mi circondano e danzano musiche infantili contro di me; contro questa donna fatta, piena, la donna dal seno sodo e i fianchi larghi, che, per mia madre e contro di lei, mi piace essere.
Violini. Le mie gambe si alzano. Allegro ma non troppo. Sottovoce. Dolcemente inizia l’ouverture. Tamburo. Il mio ventre risuona come forgia Tante volte ti ho conservato la musica. E, ciò nonostante, il tuo arco insistente genera nuovi adagi, fughe. Trombettiere di fuoco. Annunciati! Ti ricevano i miei lamenti di soprano e la tua voce di baritono risponda esaltata. Indugia inizialmente il violoncello, gli archi prima del clavicembalo, o del piano. Dopo fa ciò che desideri spèttinati dirigendo l’orchestra. Riecheggino i venti, e applauda, febbricitante, il pubblico.