Giorno e notte ti ho cercato Senza trovare il luogo dove canti Ti ho cercato nel tempo sopra e nel fiume Ti sei perduta tra le lacrime Notti e notti ti ho cercato Senza trovare il luogo dove piangi Perché io so che stai piangendo Basta guardarmi in uno specchio Per sapere che stai piangendo e mi hai pianto Solo tu salvi il pianto E da oscuro mendicante diventa re coronato dalla tua mano Traduzione di Gabriele Morelli
Poesia n. 341 Ottobre 2018 Vicente Huidobro. Acrobata del cielo a cura di Gabriele Morelli
(…) Si perde il mondo sotto il tuo chiaro andare Giacché tutto è artificio quando ti presenti Nella tua luce minacciosa Innocente armonia senza affanno né oblio Elemento di lacrima che ruota all’interno Fatto di timore altero e silenzio Fai dubitare il tempo E il cielo con istinti di infinito Lontano da te tutto è mortale Lanci l’agonia sulla terra umiliata dalle notti Solo ciò che pensa a te ha sapore di eterno Ecco qui la tua stella che passa Con il tuo respiro di lontani affanni Con i tuoi gesti e il tuo modo di camminare Con lo spazio magnetico che ti saluta Che ci separa con leghe di notte
Porto negli occhi Il calore delle tue lacrime… Le ultime. Ormai non piangerai più. Sui sentieri Giunge l’Autunno E porta via tutte le foglie. Oh, che stanchezza! Una pioggia di ali Copre la terra. Traduzione di Gabriele Morelli
Poesia n. 341 Ottobre 2018 Vicente Huidobro. Acrobata del cielo a cura di Gabriele Morelli
Due seni pallidi e inquietanti insieme; occhi rapiti di lubricità, e una carezza impudica e carnale, di traverso al mio passo e al mio cammino. E una voce dal suono indefinibile, come il duro singhiozzo di un bambino, che mi sussurra: Vieni! Io sono l’eros. Ed io andavo seguendo questa menade folle, come un lembo d’acciaio segue la calamita. Avanzavo sospinta dal mistero… S’eran fatte di ghiaccio le mie labbra, chiusa la gola da sbarre di ferro. Il mio sguardo era lucido d’umore, gli occhi raggianti come pietre alcoliche… E ritornai, le labbra insonnolite, gli occhi accecati e trepide le mani contro se stesse in orrido conflitto, assetate di scempio e, nel mio cuore, una sorta di marchio rosso fuoco, denso della più amara delusione. Ma io non ero lì: non mi porgeva, la baccante folle, alcun rimedio per il mio mal d’amore. Traduzione di Cristina Sparagana
Poesia n. 228 Luglio/Agosto 2008 Teresa Wilms Montt.Un canto di libertà a cura di Cristina Sparagana
Ti regalai un abisso, disse lei, ma in maniera tanto sottile che lo capirai solo quando saranno passati molti anni e sarai lontano dal Messico e da me. Quando ne avrai bisogno lo scoprirai, e quello non sarà il finale felice, bensì un istante di vuoto e felicità E magari allora ti ricorderai di me, anche se non tanto.
Accade che mi stanco di essere uomo Accade che entro nelle sartorie e nei cinema smorto, impenetrabile, come un cigno di feltro che naviga in un’acqua di origine e di cenere. L’odore dei parrucchieri mi fa piangere e stridere Voglio solo un riposo di ciottoli o di lana Non voglio più vedere stabilimenti e giardini Mercanzie, occhiali e ascensori. Accade che mi stanco dei miei piedi e delle mie unghie E dei miei capelli e della mia ombra Accade che mi stanco di essere uomo. Dopo tutto sarebbe delizioso Spaventare un notaio con un giglio mozzo O dar morte a una monaca con un colpo d’orecchio. Sarebbe bello andare per le vie con un coltello verde E gettar grida fino a morir di freddo. Non voglio essere più radice nelle tenebre, barcollante, con brividi di sonno, proteso all’ingiù, nelle fradicie argille della terra assorbendo e pensando, mangiando tutti i giorni. Non voglio per me tante disgrazie Non voglio essere più radice e tomba Sotterraneo deserto, stiva di morti, intirizzito, morente di pena. E per ciò il lunedì brucia come il petrolio Quando mi vede giungere con viso da recluso E urla nel suo scorrere come ruota ferita E fa passi di sangue caldo verso la morte. E mi spinge in certi angoli, in certe case umide, in ospedali dove le ossa escono dalla finestra, in certe calzolerie che puzzano d’aceto in strade spaventose come crepe. Vi sono uccelli color zolfo e orribili intestini Appesi alle porte delle case che odio, vi sono dentiere dimenticate in una caffetteria vi sono specchi che avrebbero dovuto piangere di vergogna e spavento, vi sono ombrelli dappertutto e veleni e ombelichi. Io passeggio con calma, con occhi, con scarpe, con furia, con oblio passo attraverso uffici e negozi ortopedici e cortili con panni tesi a un filo metallico: mutande, camicie e asciugamani che piangono lente lacrime sporche.
E’ oggi: tutto l’ieri andò cadendo entro dita di luce e occhi di sogno, domani arriverà con passi verdi: nessuno arresta il fiume dell’aurora. Nessuno arresta il fiume delle tue mani, gli occhi dei tuoi sogni, beneamata, sei tremito del tempo che trascorre tra luce verticale e sole cupo, e il cielo chiude su te le sue ali portandoti, traendoti alle mie braccia con puntuale, misteriosa cortesia. Per questo canto il giorno e la luna, il mare, il tempo, tutti i pianeti, la tua voce diurna e la tua pelle notturna.
Mi piace quando taci perchè sei come assente, e mi ascolti da lontano,e la mia voce non ti tocca. Sembra che si siano dileguati i tuoi occhi e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.
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