È Febbraio. Il ghiaccio è ovunque. Si notano vari livelli di ghiaccio. I suoi colori— azzurro bianco marrone grigionero argento—variano. C’è ghiaccio che ha al centro dei pezzetti di ghiaia o di ombre. Ce n’è di liscio come un fianco, che non riesci a starci in piedi. Standoci sopra il vento si assottiglia, a brandelli. Tutto ciò che volevamo, si sbrindella. I piccoli non riescono a starci sopra. Non una lettera, non un colpo di lettera, può starci. Ciecamente—ciò che dal mondo vi è giunto—s’infiamma. È Febbraio. Il ghiaccio è ovunque. Si notano vari livelli di ghiaccio.
Chi può dormire mentre lei— lontana centinaia di chilometri sento quel vasto respiro sventaglia le sue inquiete carte da gioco. Di cicatrice in cicatrice ciascun anello tintinna una volta. Eccoci madre sull’oceano senza navi. Pietà di noi, pietà dell’oceano, eccoci.
Mai i mattoni sono stati così rossi. Il cielo è azzurro come era in principio – una limpida eternità color pastello. Le nubi sono turbini stupendi, sensazioni; il brillio dell’erba balena tra il recinto; e io devo sorvegliare questo nuotatore solitario, dieci anni, che s’agita nell’acqua bassa. “Guarda, tocco quasi il fondo.”
“Va via, voglio stare con Rilke. Va via e lasciami in pace con il cielo.” È senza fiato, gorgoglia, ride, fa domande, poi, lo sguardo atterrito, frange la superficie.
Là nubi, recinto, alberi e mattoni rossi. “Va via, voglio stare con Rilke.” Guardo lui là nell’acqua. Sto guardando Rilke.
Una notte chiara, mentre gli altri dormivano, ho salito le scale fino al tetto della casa e sotto un cielo fitto di stelle ho scrutato il mare, la sua distesa, il moto delle sue creste spazzate dal vento, divenire come pezzi di trina gettati in aria. Sono rimasto nella lunga notte piena di sussurri, aspettando qualcosa, un segno, l’avvicinarsi di una luce lontana, e ho immaginato che tu venivi vicino, le onde scure dei tuoi capelli mescolarsi col mare, e l’oscurità è divenuta desiderio, e desiderio la luce che approssimava. La vicinanza, il calore momentaneo di te mentre rimanevo su quell’altezza solitaria guardando il lento gonfiarsi del mare rompersi sulla riva e in breve mutare in vetro e scomparire… Perché ho creduto che saresti venuta uscita dal nulla? Perché con tutto quello che il mondo offre saresti venuta solo perché io ero qui?
Niente riusciva a fermarti. Non il giorno più bello. Non la quiete. Non l’ ondeggiare dell’oceano. Continuavi a morire. Non gli alberi sotto cui camminavi, non quegli alberi che ti davano ombra. Non il dottore, il giovane dottore dai capelli bianchi che già una volta ti aveva salvato. Continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non tuo figlio, Non tua figlia che ti imboccava e ti aveva reso di nuovo bambino. Non tuo figlio che credeva saresti vissuto per sempre. Non il vento che ti strattonava il bavero. Non l’immobilità che si offriva al tuo movimento. Non le scarpe che ti appesantivano. Non gli occhi che si rifiutavano di guardare avanti. Niente riusciva a fermarti. Te ne stavi in camera e guardavi la città e continuavi a morire. Andavi al lavoro e lasciavi che il freddo ti penetrasse i vestiti. Lasciavi trasudare sangue nei calzini. Il volto ti si faceva bianco. La voce ti si spezzava in due. Ti appoggiavi al bastone. Ma niente riusciva a fermarti. Non gli amici che ti consigliavano. Non tuo figlio. Non tua figlia che ti guardava rimpicciolire. Non la stanchezza che viveva nei tuoi sospiri. Non i polmoni che si riempivano d’acqua. Non le maniche che sopportavano il dolore delle braccia. Niente riusciva a fermarti. Continuavi a morire. Quando giocavi con i bambini continuavi a morire. Quando ti accomodavi a pranzo, quando ti svegliavi la notte, bagnato di lacrime, il corpo scosso dai singhiozzi, continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non il passato. Non il futuro con il suo bel tempo. Non la vista dalla finestra, la vista del cimitero. Non la città. Non la città orrenda dagli edifici di legno. Non la sconfitta. Non il successo. Non facevi altro che continuare a morire. Avvicinavi l’orologio all’orecchio. Ti sentivi venir meno. Stavi a letto. Ti mettevi a braccia conserte e sognavi il mondo senza te, lo spazio sotto gli alberi, lo spazio in camera tua. gli spazi che si sarebbero fatti vuoti di te, e continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non il tuo respiro. Non la tua vita. Non la vita che cercavi. Non la vita che hai avuto. Niente riusciva a fermarti.
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi, marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba, ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato, e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii il mio nome come per la prima volta, lo udii come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante come se appartenesse non a me ma al silenzio dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Verso il tramonto, credo, cominciammo a bere. E sdraiati per terra a scrivere versi Per canzoni quella fredda Notte l’odore che entrava Dalla finestra me ne andai alle quattro andai A casa. Aprii il frigo. Lo richiusi mi stesi mi alzai. Mi stesi. Giacqui. Mi girai. Non ancora mattino. Voglio solo parlarti. Perché l’amore accade? Così poi invecchiai e morii e scrissi questo. Attenzione è affilato.
Penso alle vite innocenti delle persone nei romanzi: sanno che morranno ma non che il romanzo finirà. Come sono diverse da noi. Qui, la luna osserva ammutolita tra nubi sparse la città assopita, e il vento ammonticchia le foglie cadute, e qualcuno – cioè io – sprofondato in poltrona, sfoglia le pagine che mancano, sapendo che non c’è molto tempo per l’uomo e la donna nella camera a ore, per la luce rossa sopra la porta, per l’iris che proietta la propria ombra sul muro; non molto tempo per i soldati sotto gli alberi sul fiume, per i feriti che vengono trasferiti in città di retrovia dove resteranno; la guerra che ha infuriato per anni finirà, come pure qualsiasi altra cosa, tranne una presenza difficile da definire, una traccia, come l’odore dell’erba dopo una notte di pioggia o ciò che resta di una voce che ci fa sapere senza sillabarlo di non disperare: se la fine è prossima, anch’essa passerà.
In un prato io sono l’assenza del prato. È sempre così. Ovunque io sia sono ciò che manca. Quando cammino fendo l’aria e sempre l’aria rifluisce a colmare gli spazi in cui è stato il mio corpo. Tutti abbiamo motivi per muoverci. Io mi muovo per preservare la compiutezza delle cose.
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