Il sacrificio dell’ala spezza il volo nel verde della foresta. Cittadino sarai e mutilato caricatura di tucano per la curiosità dei bambini e l’indifferenza degli adulti. Soffrirai l’aggressione di uccelli volgari e morto te ne starai a terra tra formiche e stracci.
Io ti celebro invano come in una festa colorita ma troncata progetto di natura interrotto nell’azzardo di viaggi e d’avventure dall’Amazzonia all’asfalto d’una fiera degli animali. Io ti registro, semplicemente sul quaderno di frustrazioni di questo mondo poiché per questo sei venuto: per l’inutilità di nascere.
Le cose che amiamo le persone che amiamo sono eterne, fino a un certo punto durano l’infinito variabile nel limite del nostro potere di respirare l’eternità
Pensarle è pensare che non hanno fine e dar loro una cornice di granito. D’altra materia si fanno, assoluta dentro un’altra (più grande) realtà
Iniziano a dissolversi quando ci stanchiamo e tutti ci stanchiamo, per un altro itinerario di aspirare la resina dell’eterno
Non pretendiamo più che siano imperiture, ogni essere e cosa restituiamo alla condizione precaria, ribassiamo l’amore allo stato di utilità
Del sogno eterno rimane un gusto ocra nella bocca o nella mente, non lo so
Cosa può una creatura se non, fra creature, amare? amare e scordare, amare e malamare amare, disamare, amare? sempre, e anche con gli occhi vetrati, amare? Cosa può, chiedo, l’essere amoroso, solo, in rotazione universale, se non ruotare, e amare? amare ciò che il mare porta sulla spiaggia, quel che seppellisce, e ciò che, nella brezza marina, è sale, o precisione d’amore, o semplice ansia? Amare solennemente le palme del deserto, ciò che è consegna o adorazione in attesa, e amare l’inospitale, il ruvido, un vaso senza fiore, una strada di ferro, il petto inerte, la strada vista in sogno, e un uccello da rapina. Questo il nostro destino: amore senza calcolo, distribuito dalle cose perfide o nulle, donazione illimitata a una completa ingratitudine, e nella conchiglia vuote dell’amore alla ricerca intimorita, paziente, di amore e ancora amore. Amare la nostra stessa mancanza d’amore, e nella nostra siccità, amare l’acqua implicita, e il bacio tacito, e la sete infinita.
E mentre percorrevo, incerto una strada di pietre, a Minas e al calar della notte una campana roca si mescolava al suono secco ed interrotto delle mie scarpe e gli uccelli sospesi in un cielo di piombo le proprie forme nere scioglievano, lenti in un’oscurità ancora più imponente che veniva dai monti e dal mio proprio essere disingannato,
la macchina del mondo si socchiuse per chi si rifiutava, ormai, d’abbatterla e d’averlo pensato si doleva.
S’aprì maestosa e circospetta senza emettere un solo suono che fosse impuro od un bagliore tollerabile alle pupille consumate nell’ispezione continua e dolorosa del deserto
e alla mente, spossata nel pensare a tutta una realtà che oltrepassa la sua propria immagine sbozzata sul volto del mistero, negli abissi.
S’apriva in calma pura, ed invitava i sensi e le intuizioni rimanenti in chi d’averli usati e poi perduti non ha nessuna voglia di riaverli (se invano e all’infinito ripetiamo gli stessi senza rotta tristi peripli),
e li chiamava tutti così a sé ad applicarsi al pascolo inconsueto della natura mitica delle cose.
Così mi disse, per quanto voce alcuna od eco o soffio, o semplice boato provasse che qualcuno, in cima alla montagna a un altro qualcheduno, notturno e miserabile si stesse rivolgendo:
Ciò che hai ricercato dentro di te o fuori del tuo essere ristretto e mai non s’è mostrato anche fingendo di darsi o d’arrendersi per poi ritrarsi sempre ad ogni istante:
guarda, osserva, ausculta questa ricchezza che avanza da ogni perla questa scienza sublime e formidabile ma ermetica,
la piena spiegazione della vita questo nesso primario e singolare che tu più non afferri, tanto schivo si rivelò nella ricerca ardente là dove ti sei consumato… guarda contempla, àpri il petto, et dagli alloggio.
I più superbi ponti e gli edifici e ciò che nelle fabbriche si elabora, quel ch’è pensato e subito raggiunge distanze superiori all’intelletto, le risorse della terra dominate e le passioni e gli impulsi ed i tormenti e quanto definisce l’essere terrestre oppure si prolunga fino agli animali e giunge anche alle piante e va ad impregnarsi nel suono rancoroso dei minerali, fa il giro intorno al mondo e torna ad ingolfarsi nell’ordine d’un tutto insolito e geometrico,
l’assurdo originale e i suoi enigmi e le sue verità, alte, più di tutti i monumenti eretti alla verità,
la memoria degli dei, il solenne sentimento della morte, che fiorisce nello stelo della vita più gloriosa,
tutto si presentò in un solo sguardo e mi convocò nel suo regno augusto sottomesso, infine, alla vista umana.
Ma io mi rifiutavo di rispondere ad un appello così meraviglioso,
di fede svigorito, e senza brama né minima speranza, né l’anelito di veder svanire la spessa tenebra che fra i raggi del sole ancora filtra,
poiché le morte credenze raccolte in fretta e furia non si producevano a tingere di nuovo il volto neutro che vado dimostrando nel cammino,
come se un altro essere e non più quel che mi abitava da tanti anni guidasse ora la mia volontà che, già volubile, si richiudeva così simile a fiori reticenti al contempo chiusi e aperti in se stessi,
come non fosse quel dono tardivo desiderabile, ma disprezzabile:
abbassando gli occhi, stanco e indifferente disdegnai di cogliere quanto m’era offerto e gratuitamente s’apriva alla mia mente.
E calava la tenebra più densa sopra la strada pietrosa di Minas e la macchina dal mondo, respinta s’andava a ricomporre scrupolosa.
E proseguendo con lentezza io valutavo quanto perso le mani, appese alle braccia.
Mi sveglio per morire. Mi rado, mi vesto, mi calzo. E’ il mio ultimo giorno: un giorno epurato di ogni presentimento. Tutto funziona come sempre. Esco per strada. Vado a morire.
Non morirò adesso. Un giorno intero si distende davanti a me. Un giorno com’è lungo. Quanti passi per la via, che attraverso. E quante cose nel tempo, accumulate. Senza farci caso, proseguo il mio cammino. Molti volti si comprimono nel blocco degli appunti.
Visito la banca. Perché questo denaro azzurro se fra alcune ore verrà la polizia a ritirarlo da ciò che fu il mio petto ora aperto? Ma non mi vedo dilaniato e insanguinato. Sono pulito, chiaro, nitido, tranquillo. Nonostante cammini verso la morte.
Passo per gli uffici. Negli specchi, fra mani che si stringono, negli occhi miopi nelle bocche che sorridono o semplicemente parlano io passo. Non mi accomiato, non so nulla, non temo: la morte dissimula l’alito, la tattica, sua.
Pranzo. Per cosa? Un pesce d’oro e crema. E’ l’ultimo mio pesce sull’ultima forchetta. La bocca distingue, sceglie, giudica, assorbe. Passa musica sul dolce, un brivido di violino o di vento. Non so. Non è la morte. E’ il sole. I tram pieni. Il lavoro.
Sono nella grande città e sono un uomo nell’ingranaggio. Ho fretta. Vado a morire. Chiedo permesso ai lenti. Non guardo i caffè che tintinnano tazze e barzellette, e non guardo il muro del vecchio ospedale nell’ombra. Né i manifesti. Ho fretta. Compro il giornale. E’ fretta. Anch’essa va a morire.
Il giorno nella sua metà già consumata non mi avvisa che anch’io inizio a terminare. Sono stanco. Vorrei dormire. Ma i preparativi. Il telefono. La fattura. La lettera. Faccio mille cose che ne creerano altre mille qui, altrove, negli Stati Uniti. Mi comprometto fino al limite, combino incontri cui mai andrò, pronuncio parole vane, mento dicendo: a domani. Perché non ci sarà.
Declino con il pomeriggio, la testa che fa male mi difendo, la mano allunga una pastiglia: l’acqua affoga meno che il dolore, la mosca il ronzio… Di questo
non morirò. La morte inganna come un calciatore la morte inganna come i cassieri sceglie meticolosa, fra malattie e disastri.
Ancora non è morte, è ombra sugli edifici stanchi, pausa fra due corride. Si spegne il commercio all’ingrosso vanno a riposare gli ingegneri i funzionari, i muratori. Ma continuano guardie e autisti, garzoni altre mille professioni notturne. La città, in un colpo, cambia di mano.
Torno a casa. Di nuovo mi sistemo. Che i capelli si presentino ordinati e le unghie non ricordino il vecchio bambino ribelle. Senza polvere i vestiti. La valigia sintetica. Chiudo la stanza. Chiudo la vita. L’ascensore mi chiude. Sono sereno.
Per l’ultima volta guardo la città. Posso ancora decidere. Rimandare la morte. Non prendere quell’auto. Non proseguire verso. Posso ritornare, dire: amici ho scordato una cosa, niente più viaggio andare al casinò, leggere un libro.
Ma prendo l’auto. Indico il luogo dove qualcosa attende. Il campo. Riflettori. Passo fra marmi, vetro, acciaio cromato. Salgo una scala. Mi curvo. Penetro all’interno della morte.
La morte dispone poltrone per il conforto dell’attesa, qui si trova chi va a morire e non lo sa. Giornali, caffè, gomma da masticare cotone per gli orecchi, piccoli servizi contornano di delicatezza i nostri corpi reclusi. Moriremo non è soltanto la mia fine limitata e personale, siamo in venti ad essere distrutti moriremo in venti, in venti fatti a pezzi è ora.
O quasi. Prima la morte particolare ristretta, silenziosa, dell’individuo. Muoio in segreto e senza dolore per vivere solo come parte di venti e mi incorporo tutti i pezzi di chi in egual modo sembra ammutolito. Siamo uno in venti, fascio di aliti robusti pronti a disfarsi.
E libriamo frigidamente libriamo sugli affari e gli amori della regione. Appassiscono le strade del giocattolo soffocano le luci, soltanto materasso di nubi, si dissolvono i colli, appena un tubo di freddo mi sfiora l’orecchio un tubo che s’ottura: e dentro la cassa luminoso e tiepida viviamo in conforto e solitudine e calma e nulla.
Vivo il mio istante finale ed è come si vivessi da molti anni prima e dopo di oggi una continua vita irrefrenabile dove non ci fosse pausa, sincope, sonno tanto morbida nella notte è questa macchina e tanto facilmente essa taglia blocchi ogni volta più grandi di aria.
Io sono venti nella macchina che respira soavemente fra placche stellari e sospiri remoti di terra mi sento naturale e migliaia di metri d’altezza non mito, non uccello ho la coscienza dei miei poteri e, senza mistificazione, io volo sono un corpo volante con borsa, orologio, unghie legato alla terra dalla memoria e dal costume dei muscoli carne fra poco esplosa.
Oh: biancore, serenità nella violenza di morte senza previo annuncio prudente, nonostante l’avvicinarsi irreprimibile d’un pericolo atmosferico d’un colpo che vibra nell’aria, lamina di vento sulla spalla, raggio impatto boato folgorazione precipitiamo polverizzati cado verticalmente e mi trasformo in notizia.
Io non ho amato abbastanza il mio simile salvato il verme, curato la rogna. Ho detto soltanto alcune parole melodiose, tardi, mentre tornavo dalla festa. Ho dato senza dare. Baciato senza bacio. (Forse è cieco chi nasconde gli occhi sotto la branda.)
E a mezza luce i tesori svaniscono, i più pregevoli. E da ciò che resta come comporre un uomo, e di soave quanto egli implica, e di mormorio di offerta, concordanze vegetali e di riso, e d’amore, e di pietà?
Né ho amato abbastanza me stesso anche se prossimo. Nessuno ho amato.
Tranne quell’uccello veniva folle e azzurro che s’è sfracellato sull’ala dell’aereo.
Di tutto è rimasto un poco. Della mia paura. Del tuo schifo. Delle grida balbuzienti. Della rosa è rimasto un poco.
E’ rimasto un poco di luce captata nel cappello. negli occhi del ruffiano di tenerezza è rimasto un poco (molto poco).
Poco è rimasto di questa polvere di cui la tua scarpa bianca s’è coperta. Sono rimasti pochi vestiti, pochi veli rotti poco, poco, molto poco.
Ma di tutto resta un poco. Del ponte bombardato di due fili d’erba del pacchetto vuoto di sigarette, è rimasto un poco.
Perché di tutto resta un poco. Resta un poco del tuo mento nel mento di tua figlia. Del tuo silenzio aspro un poco è rimasto, un poco sui muri irritati sulle foglie, mute, che salgono.
E’ rimasto un poco di tutto nei piattini di porcellana fiore bianco, drago spezzato è rimasto un poco di ruga sulla vostra testa, ritratto.
Se di tutto resta un poco ma perché non rimarrebbe un poco di me? sul treno che porta a nord, sulla nave sugli annunci del giornale un poco di me a Londra un poco di me altrove? nella consonante? nel pozzo?
Un poco resta oscillando all’imboccatura dei fiumi e i pesci non lo evitano, un poco: non è nei libri. Di tutto resta un poco. Non molto: da un rubinetto salta questa goccia assurda mezzo sale e mezzo alcol salta questa zampa di rana questo vetro d’orologio frantumato in mille speranze questo collo di cigno questo segreto infantile… Di tutto è rimasto un poco: di me, di te, di Abelardo. Capello sulla mia manica di tutto è rimasto un poco, vento nelle mie orecchie rutto ignorante, gemito di viscera in rivolta, e minuscoli artefatti: campanula, alveolo, capsula di revolver… di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco. E di tutto resta un poco. Oh apri la boccetta di profumo e soffoca l’insopportabile fetore della memoria.
Ma di tutto, terribile, resta un poco e sotto le onde ritmate e sotto le nuvole e i venti e sotto i ponti e sotto i tunnel e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo e sotto il vomito e sotto il catarro e sotto il singhiozzo, il carcere, il tralasciato e sotto gli spettacoli e la morte scarlatta e sotto le biblioteche, gli asili, le chiese trionfali e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già duri e sotto i cardini di classe e di famiglia resta sempre un poco di tutto. A volte un bottone. A volte un ratto.
Cura e traduzione di Massimiliano Damaggio
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