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Un po’ d’oro nel fango

Guy Goffette

Guy Goffette

 

Mi dicevo anche: vivere è altra cosa
da quest’oblio del tempo che passa,
non le stragi dell’amore e dell’usura –
dal mattino alla notte lo facciamo:
fendere il mare, fendere il cielo, la terra,
volta per volta uccello, pesce, talpa, infine:
giocando a mescolare l’aria, l’acqua, i frutti
e la polvere; agendo come, bruciando per,
andando verso, a raccogliere cosa? Il verme
nella mela, tra le messi il vento, tanto tutto
sempre ricade, tanto tutto ricomincia e niente
mai è uguale a quello che era, né meglio né peggio,
e non cessa di ripetere: vivere è altra cosa.
Guy Goffette (Jamoigne, 1947) da I canti del pescatore d’acqua (Carte di fumo, 2006)
Je me disasis aussi: vivre est autre chose
que cet oubli du temps qui passe et des ravages
de l’amour et de l’usure: ce que nous faisons
du matin à la nuit: fendre la mer
fendre le ciel, la terre, tout à tour oiseau,
poisson, taupe, enfin: jouant à brasser l’air,
l’eau, les fuits, la poussière; agissant comme,
brûlant pour, marchant vers, récoltant
quoi? le ver dans la pomme, le vent dans les blès
puisque tout retombe toujours, puisque tout
recommence et rien n’est jamais pareil
à ce qui fut, ni pire ni meilleur
qui ne cesse de repeter: vivre est autre chose.

Tempesta

William Cliff

William Cliff

 

la tempesta avanzava urlando la tempesta
urtava il tetto delle case la tempesta
spingeva continenti di nuvole smontate
la tempesta impediva il sonno del mercante
lo studente inquieto rigirava le sue voglie
nelle pieghe ribelli del letto l’impiegato
con la gamba spezzata sotto il corpo immobile
contemplava il suo tedio distrutto nelle pieghe
della tempesta il conducente sente il volante
sfuggire al suo controllo il venditore locale
vede il telo volar via e i suoi articoli all’aria
il banchiere impaurito tira giù la serranda
sul gabbiotto minacciato della sua agenzia
e le pecore prudenti vanno a ruminare
in un buco senza vento la tempesta va
e viene a sfiatarsi sulle pianure dell’Est
e il cielo sgombro dopo la tempesta lascia
che il gelo venga a massacrare gli insetti
la cui avida ingenza preparava di già
un’estate vana per la terra troppo calda

Signor Empain

William Cliff

William Cliff

 

Signor Empain, la prego, venga a trovarmi:
ho bisogno di sentire i suoi rimproveri
e di nuovo l’inenarrabile storia
che raccontava a noi adolescenti.

È che stasera in questa città così lugubre,
ho un tremendo bisogno della sua saggezza
e che mi aiuti a bere la prossima ora
con quel sorriso che ci mostrava sempre.

E del resto lei sa che se sono in cammino,
è perché ci ordinava di partire
in modo da rimetterci a posto le idee
e allontanarci dall’ordinaria miseria.

Era meraviglioso il modo che aveva
di stare solo in mezzo ai nostri corpi
e passeggiare lì come un buon pastore
che sa essere ovunque ma anche al di fuori.

La prego, Signor Empain, che questa notte
io possa sentirla passare in corridoio
per sapere che anche la sua fatica
ha bisogno di sonno al calar della sera

tranne quando sotto la sua porta brillava
la lampada per dirci che lei lavorava.

Quando

Henri Michaux

Henri Michaux

 

Ma Tu quando verrai?
Un giorno stendendo la mano
Sul quartiere dove abito,
Al tempo maturo che non spero più davvero;
Nell’attimo d’un tuono
Strappandomi con terrore e imperio
Dal mio corpo e dal corpo pien di croste
Dei miei pensieri-immagini, ridicolo universo;
Affondando in me la tua sonda spaventosa,
Il trapano temibile della Tua presenza,
Elevando d’un colpo sul mio fango
La Tua dritta cattedrale insormontabile;
Proiettandomi non uomo,
Obice, obice nella verticale,
Verrai, Verrai, se esisti,
Adescato dal mio imbroglio,
La mia odiosa autonomia;
Uscendo dall’Etere, da dove non importa, da sotto il mio
io sconvolto, forse;
Gettando il mio fiammifero nella Tua dismisura,
E addio, Michaux.
Se no che cosa? Nulla? Mai?
Dimmi, tu che sei la Grande Posta, dove vuoi dunque finire?

Prospettiva Vladimir

William Cliff

William Cliff

 

Fiòdor Dostoyevski era allegro (sembra),
non credete alle foto che lo mostrano
col volto serio perché a quell’epoca
si posava seri per la fotografia.

Lui viziava i suoi figli, riceveva gente,
ma verso sera si ritirava in camera,
beveva del tè, cominciava a scrivere,
fumando sigarette rollate prima.

Il suo tavolo era in disordine, niente
a che vedere con questo appartamento
pulito sulla Prospettiva Vladimir.
Ma dov’è la camera da letto? Lo stretto

sofà era il posto dove si riposava:
al mattino quando si sentiva stanco,
si sdraiava e tirava una coperta
sul volto, impedendo alla luce di nuocergli.

È in questa stanza severa sul retro
che scrisse ma senza poterla finire
l’ultima opera perché era tisico
e la morte lo gelò su quel sofà.

Profughi

Charles Ducal

Charles Ducal

 

1.

Andammo incontro alla nostra paura.
Alle nostre spalle avanzava qualcosa di ancora più grande.
Non avevamo avevamo sentito come la città…
ma volevamo entrare prima che si chiudesse la porta.

Avevamo sepolto bambini,
avevamo imparato come scampa una preda
e rinunciato alla nostra vergogna in cambio di un pezzo di pane.
I cani da guardia vedendoci ammutolivano.

Davanti alla porta attendevano cavalli e stivali.
Mandammo avanti le donne incinte e i malati
nella speranza di poterci affidare a qualche legge.
Li ricacciarono indietro, non serviva a niente.

Di notte andammo attraverso le fogne
incontro alla nostra paura. Non avevamo speranza.
Ma alle nostre spalle avanzava qualcosa di ancora più grande.
Dovevamo entrare ad ogni costo.

-2-

Come potevano capirlo?

Sbarcarono quando videro delle case
e dedussero che ci viva gente
a cui poter chiedere un pane,
dell’acqua, un letto, alla peggio un mucchio di paglia,

gente che volesse stare a sentire la loro storia
con orecchio paziente e sguardo caloroso.

Ma quale dio aveva creato questi esseri
che chiedevano della loro paura le prove,
respingevano la loro disperazione sulla base di un qualsiasi articolo?
Che ricacciavano la loro barca nella tempesta?

Come potevano sapere che questa era la parte
del mondo che aveva mangiato a sazietà
alla tavola da cui erano fuggiti?
Come potevano sperare di veder spezzare il pane?

Le case erano sazie,
con i bidoni dell’immondizia pieni, disturbate nella loro quiete.
E pretendevano riconoscenza per ogni briciola
della loro civiltà,

senza sensi di colpa.

-3-

Coloro che sono tra di noi e non esistono
perché non hanno timbri,
non sono tra di noi anche se esistono.
Ho dato a uno un posto per dormire,

un uomo che si considera menomato:
colore della pelle sbagliato, sorriso sospetto.
Un uomo che si è definito
come ci si aspetta: di seconda mano, superfluo,

eppure in cerca di una vita, così,
senza motivo, senza prova di essere perseguitato,
torturato, minacciato di morte.
Solo una moglie e tre figli.

La moglie malata. Very sick.
Su questo aveva fatto affidamento.

Avevamo poche parole. Abbastanza
per un piatto, un bagno, un letto per la notte.
Parole che tra di noi non esistevano
perché non c’era più posto.

Porto Rico

William Cliff

William Cliff

 

la vetustà li rende amari
che fare per guarirli dal male
che vedano il rullìo del mare
del cielo il luccichio stellare
è dura sentire la vecchiaia
diffondersi in tutto il corpo
attenuare ogni piccola gioia
e investire il nostro tesoro
ho visto gente in età avanzata
che non aveva quest’amarezza
e che malgrado il suo peccato
rideva tra la schiuma e la brezza
del mare mobile sulla spiaggia
e dei bambini magri e sottili
che fendevano l’onda infranta
e rischiavano la loro pelle
a meno che a notte fonda
non vadano a guardare gli astri
girare e diluire la noia
che minaccia le loro teste

Mangiare a Manhattan

William Cliff

William Cliff

 

Quando ero al YMCA di Manhattan
(ad ovest di Central Park), scoprii in basso
(cioè in cantina) che si poteva
pranzare lì. Un uomo dietro un bancone
faceva rosolare le patate poi
vi buttava sopra un uovo, cuoceva e
il tutto passava sopra un piatto, quindi
con un po’ di pane e caffè si partiva
con un vassoio per sedersi in sala.
Era gradevole ed economico, in più
c’era un calore umano, un torpore
fra quella gente assonnata che masticava
ammutolita il cibo, dopo di che
si andava a deporre il vassoio su un carrello,
ognuno imboccava la sua strada a Manhattan,
io ero lieto di andare di qua
e di là seguendo il mio ozio che mi
portava ovunque sorpreso dalle cose
rare, dai lineamenti diffusi tra
i rettangoli giganti di quell’isola.

Malinconia

William Cliff

William Cliff

 

Ho subìto un attacco di malinconia
ritrovandomi solo in mezzo alla terra
vedendo che il sole andava già via
per sprofondare lontano dalla mia sfera.

Il suo raggio luminoso non mi riscalda
la causa è la mia vita fredda come un’arca
nell’indifferenza che la tiene salda
e si tuffa lontano da quella stella.

Non mi resta che scrivere la mia mania
sperando che scrivendola possa calmarsi
e rimanere come un cavallo che si ferma
si volta e aspetta l’ora dell’avena

che schiaccerà lento fra i suoi grossi denti
per dimenticare l’immensità del tempo.

Malinconia

William Cliff

William Cliff

 

quando ero un bambino solitario in campagna
e il cielo aperto mi cadeva sulla testa
e il mare intorno mormorava per venire
a rinchiudermi in una putrida marea
quando in calzoncini sporchi e ridicoli
mostravo le mie ginocchia storte ed ero
un insetto perso nell’umore infinito
degli adulti cattivi che bestemmiavano
allora mi fermavo un momento in spiaggia
e con la mano mi coprivo la faccia per
non vedere l’orrore di esser nato in terra
e aspettare sempre che rispunti il sole