Quando la sera tornavano dai campi
Sette figli ed otto col padre
Il suo sorriso attendeva sull’uscio
per annunciare che il desco era pronto.
Ma quando in un unico sparo
caddero in sette dinanzi a quel muro
la madre disse
non vi rimprovero o figli
d’avermi dato tanto dolore
l’avete fatto per un’idea
perché mai più nel mondo altre madri
debban soffrire la stessa mia pena.
Ma che ci faccio qui sulla soglia
se più la sera non tornerete.
Il padre è forte e rincuora i nipoti
Dopo un raccolto ne viene un altro
ma io sono soltanto una mamma
o figli cari
vengo con voi.
E’ difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Gli aborti non ti permettono di dimenticare. Tu ricordi i bambini che hai concepito ma non hai accolto, le piccole teste, bagnate con pochi (o nessun) capello, i cantanti e gli operai che non hanno mai assaporato l’aria. Questi, mai li trascurerai, mai li maltratterai, mai li farai tacere né li comprerai con una caramella, mai metterai nelle loro bocche i pollici né caccerai via i fantasmi che vengono nella notte. Mai li lascerai, tenendo dentro il tuo sospiro assetato di loro mai tornerai affamata di vederli, mangiandoteli con gli occhi. Io ho sentito nelle voci del vento le voci dei miei oscuri figli uccisi. Mi sono contratta. Ho consolato i miei cari oscuri sui seni che loro non hanno mai potuto succhiare. Ho detto, Dolci, se ho peccato, se ho rubato la vostra fortuna e le vostre vite dal vostro protendervi senza raggiungere, se ho rubato le vostre nascite e i vostri nomi, le vostre lacrime di neonato e i vostri giochi, i vostri amori belli o difficili, i vostri tumulti, i vostri matrimoni, dolori, e le vostre morti, se ho avvelenato l’inizio dei vostri respiri Credetemi che anche nella mia intenzionalità non sono stata intenzionale. Ma perché devo lamentarmi, lamentarmi che il crimine fosse stato di qualcun altro e non mio? Giacché comunque siete morti, anzi, non siete stati creati. Però anche detto così temo che sia sbagliato. Oh, cosa dirò, come si può dire la verità? Voi siete nati, avete avuto un corpo, siete morti. Solo che non avete mai riso ne programmato ne pianto. Credetemi, vi ho amato tutti. Credetemi, anche se per poco, vi ho conosciuti, e vi ho amati ……vi ho amati tutti.
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni, donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata; quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia, ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile. Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava, chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio; sotto questo ricordo, che t’era bruciatura, cadeva dalla mano, serena, la semente. Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio, e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi, ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto. E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi, perché tra cento donne non ho visto il tuo volto, e l’ombra tua nei solchi, seguo ancora nel mio canto.
Eri troppo minuta per essere donna e sorella maggiore
come sembrava impossibile che tu fossi madre
come sembrava impossibile morire di parto
nell’anno duemila di Dio
pesavi di meno di questo cognome che oggi
io porto da solo che se si potesse prenderlo
in braccio e sollevarlo come facevo con te
sarei un uomo diverso e avrei un sorriso
più facile da regalare ai miei figli
La luna piena risplende sul mare e tu nel mio cuore. La riva attende e invecchia. Tu non vieni mai. Fugace il sentiero lunare sul mare che inghiottì il veliero col quale a lungo avremmo vagato condotti dal desiderio, suonando il flauto e la cetra unendo canto e carne nell’argenteo vento. Traduzione di Giacomo Oreglia
AA.VV. Poesia d’amore del Novecento a cura di Angela Urbano Crocetti Editore 2006
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