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Il Gufo

Zvetan Spasov

In una notte come questa mi perderai.

Udrai il gufo gridare nel buio

dove fischiano i colpi dei nemici…

 Porteranno fiori sulla mia fossa

i compagni, piangerà mia madre

e nel dolore raccoglierà ogni ricordo di me.

Nell’orto fioriranno i papaveri,

la vita splenderà intorno,

felici si ameranno i giovani…

 Vieni allora sulla mia tomba

e dimmi che le mie illusioni

sono diventate meravigliosa realtà!

In una notte come questa mi perderai,

udrai il gufo gridare nel buio,

poi tutto ricadrà nel silenzio profondo.

Après la guerre

Wole Solyinka

Wole Solyinka

Non nascondete le cicatrici
Nella distilleria dove si spilla il sangue
ho sentito un odore
famigliare di narcotici
Non nascondete le cicatrici
Il nostro comune rizoma di carne quando
lo si calpesta dentro la terra si attrezza contro
la morte e tutto bardato si lancia in direzione
del sole se non altro per il timore di scoprire
che il guscio è vuoto e che lo stelo degli ultimi
germogli affonda in un nulla di contraffazioni
Non strappate la pelle della terra
per coprire i tagli della pelle del tamburo
Non nascondetevi sotto una crosta
trasformando il dolore nel lamento
a mezza bocca di un pagliaccio con le bende
dipinte sulla maschera e la gola secca
per mancanza di bile, un cuore
di pezza e il ghigno di un teschio
che cerca di aggirare la severità
dell’esorcismo.
Le pitture non durano. E voi lasciate
che a seguire un cuore che pulsa
come un pezzo di legno siano quelli
che vanno dietro all’ultima onda.

Traduzione di Luigi Sampietro

Poesia n. 313 Marzo 2016
Wole Solyinka. La furia del dio del ferro
a cura di Paolo Statuti e Antonio Sagredo

 

 

 

 




Fotografia dell’11 settembre

Wislawa Szymborska

Wislawa Szymborska

Sono saltati giù dai piani in fiamme
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perchè si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.

Fotografia dell’11 settembre

Wislawa Szymborska

Wislawa Szymborska

Sono saltati giù dai piani in fiamme
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.

Rumore di guerra nella testa

Serena Dibiase

Serena Dibiase

il canterino bassoronzio dalla radiosveglia un venticinque aprile
che accumula la tua età e le leggende di te che simulavi la guerra
di te che non dormivi sbattuto a forza
a lavare i denti nel laghetto con chi si sciacquava il culo
a mangiare bistecche suole indigeribili e digiunare
contare i passi dalla marcia ai granelli
aree di sabbia sterminate
accettare il contratto del viaggio la sua infinità
i proiettili sparati per sbaglio per capire se uccidono davvero
racconti archeologici di padre in figlia
è un compleanno di cieli azzurrini
vino della casa per la liberazione dei ricordi
*Allen Ginsberg
(da Amnesia dei vivi, Pequod ed., ’15)

America America

Saadi Yousef

Dio salvi l’America
La mia casa dolce casa!

Il generale francese che sollevò il suo tricolore
su Nugrat al-Salman dove fui prigioniero trent’anni fa…
nel mezzo di quella svolta a U
che spezzò la schiena dell’esercito iracheno,
il generale che amava i vini di St Emilion
definiva Nagrat al-Salman un forte…
Sulla faccia della terra, i generali conoscono solo due dimensioni:
tutto ciò che si erge è un forte
tutto ciò che si estende è un campo di battaglia.
Com’era ignorante il generale!
Ma Liberation era più versato in topografia.
Il ragazzo iracheno che ne conquistò la prima pagina
sedeva carbonizzato dietro al volante
sull’autostrada Kuwait-Safwan
mentre le telecamere
(il bottino della sconfitta e loro identità)
erano al sicuro nel camion come in una vetrina
su rue Rivoli.
La bomba a neutroni è altamente intelligente,
riesce a distinguere fra
un “Io” e una “Identità”.

Dio salvi l’America
La mia casa dolce casa!

(Blues)
Quanto devo camminare per arrivare a Sacramento
Quanto camminerò per arrivare a casa
Quanto camminerò per raggiungere la mia ragazza
Quanto devo camminare per arrivare a Sacramento
Per due giorni, nessuna barca è salpata da questo torrente
due giorni, due giorni, due giorni
Tesoro, come posso andare?
Conosco questo torrente
Ma, O ma, O ma, per due giorni

La L La La L La
La L La La L La

Uno straniero si spaventa
Non avere paura caro cavallo
Non avere paura delle volpi nella foresta
Non avere paura perché la terra è la mia terra

La L La La L La
La L La La L La

Uno straniero si spaventa

Dio salvi l’America
Mia casa dolce casa!

Anche a me piacciono i jeans e il jazz e Treasure Island
e il pappagallo di Long John Silver e le terrazze di New Orleans
Amo Mark Twain e i battelli a vapore sul Mississippi e i cani di Abraham Lincoln
Amo i campi di grano e di granturco e l’odore del tabacco della Virginia.
Ma non sono americano. Tanto basta perché il pilota del Phantom mi riporti all’Età della Pietra!
Non ho bisogno del petrolio, né della stessa America, né dell’elefante, né dell’asino.
Lasciami pilota, lasciami la mia casa con il tetto di foglie di palma e il suo ponte di legno.
Non ho bisogno del tuo Golden Gate né dei tuoi grattacieli.
Ho bisogno del villaggio non di New York.
Perché sei venuto da me dal tuo deserto del Nevada, soldato armato fino ai denti?
Perché hai percorso tutta la strada fino alla lontana Basra dove i pesci nuotavano fino alla porta di casa.
Non alleviamo maiali qui. Ho solo questi bufali che masticano pigramente gigli d’acqua.
Lasciami solo soldato.
Lasciami alla mia capanna di giunco e alla mia canna da pesca.
Lasciami i miei uccelli migratori e le piume verdi.
Prenditi i tuoi rombanti uccelli d’acciaio e i tuoi missili Tomahawk. Non sono tuo nemico.
Sono quello che affonda fino alle ginocchia nelle risaie.
Lasciami alla mia sventura.
Non ho bisogno del tuo giorno del giudizio.

Dio salvi l’America
Mia casa dolce casa!

America
scambiamo i tuoi doni.
Prenditi le tue sigarette di contrabbando
e dacci patate
Prenditi le pistole dorate di James Bond
e dacci le risatine di Marylin Monroe.
Prenditi la siringa di eroina sotto l’albero
e dacci vaccini.
Prenditi i tuoi progetti di penitenziari modello
e dacci case e villaggi.
Prenditi i libri dei tuoi missionari
e dacci carta per poesie che ti diffamino.
Prenditi quello che non hai
e dacci quello che abbiamo.
Prenditi le strisce della tua bandiera
e dacci le stelle.

Prenditi la barba del Mujahidin afgano
e dacci la barba di Walt Whitman piena di farfalle.
Prenditi Saddam Hussein
e dacci Abraham Lincoln
o non darci nessuno.

Guardo dall’altra parte del balcone
dall’altra parte del cielo estivo, la Damasco estiva d’estate
gira, stordita fra le antenne televisive
poi affonda, profondamente, nelle storie di forti
e torri
e gli arabeschi di avorio
e affonda, profondamente, dal Rukn al-Din
poi scompare dal balcone.

Ed ora
ricordo gli alberi:
la palma da dattero della nostra moschea a Basra, all’estremità di Basra
il becco dell’uccello
e un segreto di bimbo
una festa d’estate.
Ricordo una palma da dattero.
La tocco. Divento lei, quando cade annerita senza foglie
quando una diga cadde abbattuta dal lampo.
E ricordo l’imponente gelso
quando rintronò, massacrato da una scure
riempire il torrente di foglie
e uccelli
e angeli
e sangue verde.

Ricordo quando i fiori del melograno coprivano i marciapiedi,
gli studenti guidavano la sfilata degli operai…

Gli alberi muoiono
colpiti
storditi,
non in piedi
gli alberi muoiono.

Dio salvi l’America
Mia casa dolce casa!

Non siamo ostaggi, America
e i tuoi soldati non sono i soldati di Dio…
Noi siamo i poveri, la nostra è terra di Dei annegati
Dei di tori
Dei di fuoco
gli Dei del dolore che intessono argilla e sangue in un canto…
Noi siamo i poveri, nostro è il dio dei poveri
che emerge dalla costola del contadino
affamato
e radioso,
e leva in alto i capi…
America, noi siamo i morti
Lascia venire i tuoi soldati
Chiunque uccida un uomo, lascia che lo resusciti
Noi siamo gli annegati, cara signora

Noi siamo gli annegati
Lascia venire l’acqua.

La bomba di Hiroshima

Roberto Roversi

Roberto Roversi

La bomba di Hiroshima
bruciò troncando le ultime parole.
L’ossa calcinate
riverberano il cielo senza fiato.
L’erba per sempre ha il verde rovesciato,
l’albero ha il suo tronco congelato
per sempre, la natura scompare
per sempre, nell’orrore dell’uomo
dentro un fuoco di morte.
File di carri cercano le frontiere,
appena cadute le barriere
di filo spinato
la gente beve nelle mani screpolate
e corre forte sperando lontano
per la pianura, macerie a frugare
macchie nere di lava paura;
nel sole la guerra è seppellita
con gli ultimi soldati in pietra dura.
Nel Giappone una città nuova
cresce adesso funebre violenta
sopra uomini esanimi che al sole
si scuoiano nei fossi.
E qua è l’Italia, non intende, tace,
si compiace di marmi, di pace
avventurosa, di orazioni ufficiali,
di preghiere che esorcizzano i mali.
Ma nel mondo le occasioni perdute
sono i sassi buttati dentro il mare;
nei luoghi devastati dalla lebbra
o accucciati nell’ombra a imprecare
non un granello di polvere nel fondo
dell’occhio incantato che li domina.
Tutti i morti ormai dimenticati.
Il ventre della speranza è schiacciato
Nella polvere da una spada antica;
anni interminabili, senza amore,
inchiodano col fuoco alla fatica.

Ma dove stiamo andando col mal di testa la guerra e senza soldi?

Nanni Balestrini

 

Nanni Balestrini

 

Ma dove stiamo andando col mal di testa la guerra e senza soldi?
oltre il tergicristallo ronzante? denotando una reale
e comune volontà di riscatto? che sciocchezze! (né la folla
di sghimbescio parve notare, tutti compresi nei loro
piedi).
Ora comunque allunga le gambe o accavallale bianche
sbadiglia, guarda nel vetro la paglia che brucia, il fiume
se scorre verdescuro, pensa a qualcosa,
conta i paracarri, fa’ quel che ti pare:
non c’è pericolo che non arriviamo, pazienti godiamoci il viaggio,
godiamoci, non c’è pericolo se ci perdiamo, tanto non si viaggia
(il profilo di un paziente su un carrello attraversando la carestia),
tanto non si arriva, arriveremo: all’ameba, alla mecca, alla mela,
dietro gli uccelli in fuga bassi dalla città minata, dal maltempo.
Lieto fine: cresce (sul concetto di morte non è
necessario alcun chiarimento). cresce nelle tue mani;
elefanti frustano l’aria,
l’orizzonte di gomma arancio,
la terra sommersa nei campi. Non c’è bisogno di crederla
un’associazione fortuita. (Le tue ossa nere, la fontana,
le pinne rilassate, me lo figurano tutto diverso.)
Quei soldati bipedi come corrono guarda appesi alla bufera –
ma cosa ce ne facciamo del pianeta! scompaiono, al diavolo, al bivio.
Gonfio di miele il fazzoletto sul sedile posteriore vuoto
e dopo un’ora ne avevamo abbastanza e continua (non ne usciremo)
fumando e raccontando quand’ero tossicomane può continuare
con queste mani sempre pulite seppellivo disseppellivo i vivi…
E continua fino alla fine del continente (e un poco oltre,
aperti gli occhi dentro l’acqua, attenti all’elica e al crampo,
se non ce la fai non importa tanto meglio non ti bagni non sanguini).


Nanni Balestrini (Milano, 1935), daIl sasso appeso(Scheiwiller, 1961)

10 giugno 1940

Maria Attanasio

Maria Attanasio

Notte o ventre di betoniera
senza luce di faro senso di parola
doppiando l’ora il passaggio
gli steli ciechi della metamorfosi
-l’amore postumo l’inguaribile ferita,
la discesa lì dentro, al buio-
cercando tra folle e altoparlanti
nelle piazze del quaranta
il file compresso tra i calanchi
-l’istante in bilico tra un abito a fiori
e un sacco di frattaglie- mentre le armate
risalgono il millennio a passo d’oca
e sua figlia -già vecchia-
accucciata in un angolo la guarda e piange.
da DI DETTAGLI E DETRITI
(Almanacco dello Specchio, Mondadori, 2010)
(In memoria di Celeste C.: che è stata ed è.)