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Eroina

Riccardo Mannerini

Riccardo Mannerini

Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.

Adolescenza

Giovanna Rosadini

Giovanna Rosadini

Per M. D.
La Riviera è il nostro regno
in questo inizio di estate terso
come una promessa che si avvera
improvvisa e perpendicolare
ai morti orizzonti invernali
il primo amore è la sorpresa
di ritrovarsi in corsa nella luce
aperta della strada, appoggiata
alla tua schiena mentre l’aria
vortica intorno, e ogni cosa
sembra sul punto di schiudersi.
Mi lascio portare, leggera
d’animo e di pensieri, dimentica
di tutte le domande rimaste inevase:
oggi mi basta sapere quale sarà
la spiaggia dove siamo diretti,
da cui ci tufferemo
tenendoci per mano.
Giovanna Rosadini (Genova, 1963), da Fioriture capovolte (Einaudi, 2018)

Respiro nel respiro, ascolto la notte

Giovanna Rosadini

Giovanna Rosadini

Respiro nel respiro, ascolto la notte.
Ombre lunghe tendono abbracci,
invitano a proseguire oltre la siepe
sul confine dello sguardo. Accade,
ancora, di ritrovarsi nudi, esposti.
Restare allora nella notte, accogliere
la sua lusinga è un balsamo per chi
non lascia tempo alla paura, tenebra
è una parola che risolve e cura.
Giovanna Rosadini (Genova, 1963), da Fioriture capovolte (Einaudi, 2018)

L’è no quistiun de droga o de la sgnappa

Franco Loi

Franco Loi

L’è no quistiun de droga o de la sgnappa,
che quel che brüsa den’ l’è ‘l nost sperà,
trattà cuj òmm e pèrdess ne la lappa,
‘na storia s’ceppa che ghe fa penà…
L’è lì la vita, e le sluntana el vent,
e mai ghe sarèm dent cume a nuà…
L’è culpa del durmì, del viaculvent
de tanta giuentü prunta a massàss…
el capì no, vultàss, quel fàss dement
per minga vêd la merda del sugnàss,
quel scùndess ne la pulver del mument
e vègh paüra di fis’c del memurià…
E alura stèm lì schisc, a streng i dent,
pien de nagott, alegher nel pissà…
Non è questione di droga o di grappa,
ché quel che brucia dentro è il nostro sperare,
trattare con gli uomini e perdersi nella chiacchiera,
una storia spezzata ci fa penare…
È lì la vita, e l’allontana il vento,
e mai ci saremo dentro come nel nuotare…
È colpa del dormire, del matto disperarsi
di tanta gioventù pronta ad ammazzarsi…
…il non capire, voltare la testa, quel fare gli scemi
per non vedere la merda del nostro sognare,
quel nascondersi nella polvere del momento
e aver paura dei fischi della memoria…
E allora stiamo sottomessi, a stringere i denti,
pieni di niente, allegri nel pisciare…
Franco Loi (Milano, 1937), da Voci d’osteria (Mondadori, 2007)

Umberto Fiori consiglia Franco Loi

Franco Loi

Franco Loi

De Diu sun matt
De Diu sun matt, se streppa la cusciensa.
Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…
E püssè ‘l pensi, e pü ghe sun luntan.
Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna,
ch’i mè penser în nüver, e lü se scund.
Inscì, me tundi via, parli cuj òmm,
e matta l’è la lüna, ciara lünenta,
cun la sua lüs che slisa ne la nott.
Franco Loi (Genova, 1930), daMemoria (Boetti&C., 1991)
Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza.
Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado…
E più lo penso, e più gli sono lontano.
Dio è scherzoso… E’ come fa la luna,
che i miei pensieri sono nuvole, e lui si nasconde.
Così, mi distraggo, parlo con gli uomini,
e matta è la luna, chiara luneggiante,
con la sua luce che scivola nella notte.
Alla poesia di Franco Loi –una delle più forti e autentiche dell’ultimo Novecento- molti sono costretti ad accostarsi attraverso la traduzione in lingua messa a disposizione dall’autore. Sereni, Fortini, Giudici –lettori decisivi per il riconoscimento critico del poeta negli Anni ‘70- capivano il milanese come si può capire il tedesco, o il russo. Fortuna ha voluto che il sottoscritto –ligure di nascita, deportato a Milano a cinque anni- abbia respirato questo ostrogoto cordiale e spigoloso fin da piccolo. Loi, io lo leggo direttamente in dialetto, e l’ho persino cantato (grazie alla musica del mio amico Tommaso Leddi). Il testo che ho scelto è uno dei miei preferiti; l’imbarazzo che mi trasmette la sua versione italiana (seppure “d’autore”) è rivelatore. Le svise sintattiche, che nell’originale animano il testo, in italiano risultano goffe e legnose; rimuginare è l’ombra “signorile” di remenâ; l’epiteto luneggiante un penoso ingessamento dell’originale lünenta; il verbo scivola è l’eco insipida dell’etereo slisa. Eccetera. Ascoltata in milanese, questa lirica è la quintessenza della poesia di Loi: una mistica “bassa”, colloquiale e profonda, che rivolta la grande tradizione lirica italiana, infondendole nuova intensità. (Umberto Fiori, marzo 2014)

Verso Vienna

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Il convento barocco
di schiuma e di biscotto
adombrava uno scorcio d’acque lente
e tavole imbandite, qua e là sparse
di foglie e zenzero.
Emerse un nuotatore, sgrondò sotto
una nube di moscerini,
chiese del nostro viaggio,
parlò a lungo del suo d’oltre confine.
Additò il ponte in faccia che si passa
(informò) con un solo di pedaggio.
Salutò con la mano, sprofondò,
fu la corrente stessa…
Ed al suo posto,
battistrada balzò da una rimessa
un bassotto festoso che latrava,
fraterna unica voce dentro l’afa.

Xenia I

Eugenio Montale

Eugenio Montale

– Introduzione –

IL TU
I critici ripetono,
da me depistati,
che il mio – tu – è un istituto.
Senza questa mia colpa avrebbero saputo
che in me i tanti sono uno anche se appaiono
moltiplicati dagli specchi. Il male
è che l’uccello preso nel paretaio
non sa se lui sia lui o uno dei troppi
suoi duplicati.

Xenia I, 5

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

Nel fumo

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse dentro
il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
poi apparivi, ultima. È un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.