Fasullo com’era la pietra che portava al collo, l’imitazione di una nobile premessa, una necessità vietatagli dalla nascita. Almeno ne possedeva una proiezione che si raccontava allo specchio, o intanto che guidava, coperto dal ronzio della confusione. Di quello che per lui era irraggiungibile, se non come farsa, mentre per gli altri era la norma. L’amore a cui si sentiva costretto non era altro che l’oro, il metallo prezioso in cui s’incastonava la sua gemma alla perfezione, e non aveva peso, ma impura allo stesso modo lo obbligava al terreno, frutto senza prezzo di una mano superiore. Realtà non è semplicemente il contesto che ci fa stare bene? La speranza ci vizia e ci trattiene: qui smeraldi grezzi portati al collo.
Sedotto da un caffè bruciato, mi appello alla sentenza: sorsi contati a distanza della tua sfrontata assenza. Il misero traliccio crede nelle stelle e spera a fine giornata lo raggiunga il gemello; l’unione di luce celata dai cavi, l’hai già indovinata? Da L’amore è qualcos’altro, Empirìa, 2013
Padiglione di mandorli nel biondo colore di febbraio è la campagna; e al rapido infittirsi dei germogli che traboccano, o in punto d’incarnarsi, la voluttà mi afferra senza braccia. L’immagine di lei si acciglia e ride sotto un gioco di rondini, al suo collo mobile di baleni accosto il labbro e alla sua bocca, foglia di sibilla. ma insiste per i campi un assiuolo l’armonia di velluto, e fa un profumo dal suo bruno languore misurato la viola; io ripenso le sue dita rosse all’estremità, petali intinti di porpora, tracciare sulla sabbia dei millenni il mio nome all’infinito.
Plinio Perilli Melodie della terra. Novecento e natura Crocetti Editore 1997
«Mai smetterò di volgermi al passato», ti provoco eccitato nella doccia, sussulti – lo spavento – tremi – penserai a tutte quelle impronte in me che si sono fatte Forma – scosti l’orecchio per orgoglio, e ribatti: «perché ti ostini?» «Mai cederò la mia storia», la risposta liberatoria di chi gareggia a trattenere il fiato, nella fantasia di una vasca, coi sottomarini. «Non posso fare altrimenti». Se ogni foto avesse la sua verità nascosta, passatempi fasulli per bambini, la barchetta di carta che dondola sarebbe solo un foglio di cronaca piegato male. Da L’amore è qualcos’altro, Empirìa, 2013
Penelope era taciturna – sapete -, tesseva al telaio e sorrideva dolcemente, anche prima ch’io andassi in giro a guerreggiare per il mondo. Alzava quella volta gli occhi dalla trama e mi vedeva in viaggio, perso nei suoi pensieri. Neanche avessi usato la scusa delle sigarette: un pacchetto lungo un’altra vita incompleta, un ritorno. Si allontanava con le onde la notte prima di partire, un ramo reciso il saluto commosso, strozzato l’indomani dal contegno; realizzavo cos’era essere solo. Non avete idea di quanto abbia implorato gli dei dai ponti delle navi assediati dalle stelle, dalle spiagge coperte e ventose, persino in mezzo alle armi sconosciute dei nemici, che il silenzio caldo di casa non si estinguesse mai. Ulisse – mi assillavo -, ma dove vai? (con Luigi Malerba) _x00C_ Da Un’ombra in due, L’Arca Felice, 2014
Magra stagione. La data del nostro amore in tavola sull’etichetta di un vasetto rosso. Quel giorno eterno già c’era chi pensava all’inverno: pomodori secchi. Da L’amore è qualcos’altro, Empirìa, 2013
Tra il cartello “Ferrara” e il resto per ultima una chiesa, a detta loro sconsacrata: una volta cappella di pellegrini, allora rivolta alla strada non ancora annerita. Basso il campanile, non aveva più rintocchi, rimossi, li avevano spostati in paese. Mi piaceva entrare in quello spazio intatto nella dimenticanza. Si manteneva fresco e stavo bene coperto. Mi sentivo protetto. Oggi è di proprietà, e pensavo che c’eri stato per poi andartene, anche Tu, o essere cacciato.
Le bellezze d’Olimpia eran di quelle Che son piú rare: e non la fronte sola, Gli occhi, e le guancie, e le chiome avea belle, La bocca, il naso, gli omeri e la gola; Ma discendendo giú da le mammelle, Le parti che solea coprir la stola, Fur di tanta escellenzia, ch’anteporse A quante n’avea il mondo potean forse. Vinceano di candor le nievi intatte, et eran piú ch’avorio a toccar molli; Le poppe ritondette parean latte Che fuor dei giunchi allora allora tolli: Spazio fra lor tal discendea, qual fatte Esser veggian fra piccolini colli L’ombrose valli, in sua stagione amene, Che ’l verno abbia di nieve allora piene. Aa.Vv. Il seno in-cantato Antologia di poesie sul seno a cura di Alfonso Maria Pluchinotta Crocetti Editore 2005
L’empatia che mi spinge a Lui, una simpatia vera, traghettata nel corso di certe notti insonni, di carenze e fumenti di filosofia, è il suo essere insostituibile al mio: è diventato, lo è sempre stato, inseparabile da me. Ma solo adesso lo vedo come tale, palesemente: essendo io la preda della mia insofferenza, tossisco un’essenza assopita che non conosco; in questo ordine imposto (pure dal maggiordomo!), in una città , la mia, in cui la nebbia sia in realtà polvere da abbandono, in questa mancanza di fuoco, di sangue nuovo. Mi sento allucinato abbastanza da trasgredirvi, uno tra i tanti, Henry Jeckill Da Fischi di merlo, Edizioni del Leone, 2011
A Venezia di nessuno, dove, tra vento e mare, non rimane tanto spazio per sperare. Cercavo una porta d’acqua tra calli annerite dal sale e pali di legno marciti. Città a ritmo di mare. Gli svassi in fuga in fondo al canale, davanti alla prua: disteso in vetta alla barca per passare sotto i ponti fumando realizzavo quei secondi. Divieto di scaricare se stessi. La Bora mi bruciava gli occhi. Impassibili i gabbiani sui pozzi o sospesi accanto alle navi, facevano festa: sopravvivere con poco, spensierati. «Vento di tempesta, al largo o su chissà che altra costa, portami con te da quanto tiri forte nella mia testa». La schiuma sul limitare dell’onda non era neve. Solamente il suo ricordo. Da Un’ombra in due, L’Arca Felice, 2014
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