Vivo al peccato, a me morendo vivo; vita già mia non son, ma del peccato: mie ben dal ciel, mie mal da me m’è dato, dal mie sciolto voler, di ch’io son privo. Serva mie libertà, mortal mie divo a me s’è fatto. O infelice stato! a che miseria, a che viver son nato!
Tardi ormai si è piegato il glicine sui pergolati. O troppo in fretta il profumo ci ha incontrati. Come il silenzio che precorre il suono e ne fa superfluo il ricatto. (da Un filo più lento, Firenze, 2010)
Sono quello sfondo d’aria che più di altri palesa la pioggia la zona sospesa in cui più chiaro si tratteggia il desiderio. Sono quella me che mi rivela. Ma è sempre un volto dell’assenza. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
Questo dovrò imparare a disserrare a guardare dapprima vicino poi oltre davanti più in fondo il viale del tuo tempo che si apre al mondo. E nel mondo tutt’intorno restituire una voce di terra alla terra e di buono alla fonte lontana. Saprò lasciare la stretta ridare sul pendio inatteso un più generoso scintillìo al ruotare dei fatti non invano come il bimbo che sente il soffio di Dio nell’istante in cui finalmente va in bicicletta con una sola mano. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
Come il sole cerca di notte l’altro versante della terra il familiare si sposta nell’ignoto. Io e te che in guerra lucenti ci amiamo ora torniamo a due paci lontane. Lasciamo il letto assolato e sfatto come un assoluto che invano cercherebbe un confine come un dire infinito che si ritira dal detto. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
O Notte, o dolce tempo, benchè nero, con pace ogn’opra sempre al fin assalta, ben vede e ben intende chi t’esalta, e chi t’onora ha l’intelletto intero. Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero, che l’umid’ ombra e ogni quet’appalta, e dell’infima parte alla più alta in sogno spesso porti ov’ire spero. O ombra del morir, per cui si ferma ogni miseria all’alma, al cor nemica, ultimo degli afflitti e buon rimedio, tu rendi sana nostra carn’ inferma, rasciugh’ i pianti e posi ogni fatica e furi a chi ben vive ogni ira e tedio
Sei per metà il mio passaggio obbligato da cime accecate dal nevischio ai nudi epicentri del respiro dove più vera la vita cresce in grembo al rischio. E per metà sei fuori da ogni rotta un valico sconnesso inespugnato: nella totale assenza delle prove sei il mio dolce reato mai commesso. (Da LA BOÎTE, Firenze, 2013)
Ho visto un angolo invariato. Poi ho scorto con gli anni che dei tre lati uno si è accorciato. Tra gli altri due –il bianco e il nero- è assai breve ora la distanza. Lo spazio piano circoscritto si è ridotto. A volte addirittura nell’accavallamento ciò che resta è una linea una lenza un segmento né bianco né nero che si fa più consunto quasi un punto che brucia privo d’attributi che in sé non tiene nessuna superficie ma tutt’intorno lascia uno stare illimitato. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
C’è in me qualcosa che s’alza ricade s’innalza di nuovo. Uno sbalzo prima del tacito assembramento. Un tamburellare improvviso della tempia sul suo fragile orlo come un campo preso al margine dal suo più forte vento. Ma poi anche il vento come ogni morte cessa. E quando cessa mi lascia dove s’arresta: una pendenza una cresta un pianoro una parte di me dove la speranza che torna non è più la stessa. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
Faccio ripartire il viaggio il racconto di un viso che non ho più toccato il giorno che è finito. Lo faccio ripartire da un attimo preciso. Poi sposto quel momento come fosse la punta di un compasso per vedere con uguale raggio il mutare del disegno e del coraggio con cui s’ingegna la memoria nel fare dei suoi chiusi passi una danza di vittoria. (Da L’arte di cadere, Castelfranco Veneto, 2015)
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