Stelvio Di Spigno
Gli anni mi si siedono davanti.
Sui sandali, vestiti da padroni.
Parlano.
Ci hai portato a palazzo, ti abbiamo vaccinato,
come un pezzo d’avorio infarinato
di segale ferrigna e minestra di dolori,
e noi a farti da balia, perché non ti perdessi,
mentre tutto era contato, era meno di niente, e tu
squadernato di smanie, senza frutto, senza onore,
una scopa col manico di sale.
Hai vissuto in stratosfera, hai muggito
credendo a ogni fuoco castrato in desiderio,
e il tuo tempo, smisurato, fu una fede
messa al dito per dispetto, l’hai pestato
nelle corse di notte, con le donne degli altri,
con le droghe e le toghe di cui si veste chi è doloso.
Ora vengono i treni pieni d’altri messi male:
l’odore di vergogna, il sudore del paesaggio,
cemento dentro e fuori, l’inferno incatenato
momento per momento. Dappertutto,
un diamante sfiorito nel suo osso.
Ecco cosa ripetono i miei anni.
Non posso rinfacciare. Non ringrazio, non ho vita
da opporre alla fatica. Solo che non duri
il silenzio di quanto mi ha scaldato. Che il teatro
non mi resti sulle spalle senza attori.
Che non debba mangiarla fino in fondo
l’ortica che ho piantato sui miei passi.
E che Dio, in eterno, mi perdoni.
(Da Fermata del tempo, Marcos y Marcos, Milano 2015)