Sono tornato a una lunga spiaggia, la curva martellata di una baia, e trovai soltanto le secolari potenze tuonanti dell’Atlantico. Ho fissato i non magici richiami dell’Islanda, le patetiche colonie della Groenlandia, e all’improvviso
quei favolosi predoni sepolti nelle Orcadi e a Dublino distesi contro le loro lunghe spade arrugginenti, quelli nel solido ventre di navi di pietra, quelli fatti a pezzi e luccicanti nella ghiaia di correnti sgelate erano voci assordate dall’oceano che mi mettevano in guardia, risollevate nella violenza e nell’epifania. La lingua nuotante della nave vichinga veleggiava con il senno del poi – diceva del martello di Thor vibrato su geografia e commercio, di accoppiamenti ottusi e di vendette, di odi e maldicenze, delle antiche assemblee, menzogne e donne, di sfinimenti definiti pace, memoria che incuba il sangue versato. Diceva: “Scendi nel tesoro di parole, scava la tana nella spira e nel bagliore del tuo cervello solcato da rughe. Scrivi nel buio. Attendi l’aurora boreale nel corso della lunga scorreria, ma nessuna cascata di luce. Mantieni limpido il tuo occhio come la bolla d’aria nel ghiacciolo, fidati della percezione di quel nocciolo di tesoro che le tue mani hanno conosciuto”