Roberta Dapunt
C’è un’avidità ordinaria riposta fra il torace e il bacino,
confidenza continua di visceri a voce bassa. Si pronuncia
cupo e profondo da mattina a sera un linguaggio impudente,
che senza fare nulla si preoccupa soltanto di mangiare e di bere.
E predica infame, sembra stia in continuo digiuno,
è recipiente degli ingordi rapporti questo ventre in abbandono.
In passato mi è stato utero, un felice grembo materno, testimone
che lì dentro si conferma l’esistenza. Io da fuori
l’ho accolta, tenuta tra le mani, curata e cresciuta.
Ora questa è cosa cessata. Dò quindi ai versi
un tempo trascorso al quale ho potuto dire: madre,
io dimentico me stessa, eppure sono
tutta in accordo col mondo. Questo è ora il mio volume.
Guarda dunque, risolvo i miei passi con ritmo pesante,
ciò che porto con me è la vita. Quale ornamento
per questo cervello di poeta sventrato
dal pensiero, sempre unico del parto.
Ma in questo altro tempo il sempre
è solo memoria di una sua precedente condotta.
Questo ventre è luogo dove non passa nessuno.
Credo di avere ragione a chiamarlo
il ventre della poeta.
Da sincope 2018, Einaudi