Roberta Bertozzi
È notte lirica, altissima.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno la mano placida sul membro.
Qualcosa ancora in stato di panico
ulcera la frontiera con le pinze, con
un piccolo coltello a serramanico.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno avuto il loro pane quotidiano
e il loro sangue si fa svelto – viola.
È notte lirica, danubiana.
E se il pazzo grida nel reparto è solo
per continuare il suo cantiere –
dare fiato al cadavere
del caro estinto Novecento.
È notte di grazia,
e la pastina è nel piatto del bambino
le labbra serrate della gente in pace
mentre una nuvola di borotalco
sbuffa dall’inceneritore
sottovoce.
È notte, ma torna
quel brusio, quella sgualcitura del silenzio,
la fiumana che si trascina la rotativa
nel respiro, nei muscoli che bruciano,
nel tubo di condotta che incula
un altro tubo,
quel bisogno di continuare a fabbricare – addizionare
adrenalina al laccio.
È notte ed è notte anche sui tuoi polsi,
sul tuo rimbalzo cardiovascolare
e io col compasso ti traccio la vena e coll’unghia
ti sottraggo – dai a me. E ancora. Ancora spinge
la mia pietà sulla vena
a farti più paralisi.
È notte alta, potentissima
e il mondiale infaticabile arsenale
mugola attraverso la parete carta-velina,
viene a rima.
…
“come un’ora del bisturi
Bambino, e questa lama è benefica”
ahi questa – lama che ti benedice
mentre ringhia notte sulle schiene flesse.
Pensi: se non spargeremo calce sul passato
i muri continueranno a sudare
la secrezione urticante dei lamenti
e l’odore dei forni
irreparabile
l’odore.
La rovina è inscritta di retro alle palpebre,
nella tenda oscurante delle palpebre
stampata la forma della carneficina
(sentinella serale io solo che lento provo
premendo bocca alla tua, io che adagio ti apro nel ventre)
mentre fa di tutto per piovere quest’acido
questa allegra amnesia
sui sopravvissuti, i – nati dopo.
Per cancellare ogni notte brancolando
l’amore digrigna contro gli spettri
il suo disgraziato caritare
come un cane.
…
«Togliti, lasciami stare…»
Sui fianchi addensa la via lattea dei tralicci.
Spanciare nel mezzo e non stringere il vento.
La luce che si spalma come colla,
un narcotico. La garza della luce.
Dalle rive, nelle stanze-contrafforti
hanno i corpi sgretolati di abbandono,
le teste a pioggia.
«Domani proseguiamo sulla stessa rotta
manca poco ormai…»
«Poco…»
«Pochissimo, credimi.»
«E dopo cosa facciamo?»
«Niente, dopo siamo arrivati.»
E il gas prenderà la giusta direzione.
(da Gli enervati di Jumièges, postfazione di Pasquale Di Palmo, peQuod, Ancona 2007)