I. in utero

Roberta Bertozzi

Roberta Bertozzi

«Se ti fermi devi ricominciare
dall’inizio… dai qua!»
Escoriazione – procurarsi da soli
sbrigativo per evitare arrivi
qualcosa di peggiore – forato buio popolato
di animelle cervicali
battere sul tempo e più boccettina adesso
e nicotina abboccare
per disinfettare l’orlo, per tirarlo a combacio
«mi sembra che oggi va meglio…»
poi ricominciamo – le scalfitture,
la pelle sottopelle più abrasiva
e spremere adagio dalla
l’umore spento, scuotere prima di ogni uso lisciarsi
colla lucida urina
e lento sbiancare in nuova, siberiana
sacca d’utero.

Per la safety first – assumere
i precetti per cui opera
la salubrificazione – mia, tua.
Metti il tampone, inghiotti
(la tua lingua fuoriuscire per altre dentellature vedo)
poi ad anni alterni il corpo fare duro di abbandono
e attendere pazienti, «sta fermo ti ho detto…
così…»
per la somministrazione del perdono.

L’alba, la stanza ossigenata
(cerchi un punto d’appoggio per lo sguardo
ti abbracci all’edificio); quando al blocco il contatore
ci rinumera nelle file
e il soprannumerario inciampa per la rampa
delle scale – non volendo
cosa gli va negli occhi, cosa gli fa – corpuscolo.
Poi solo lo scorrere – sostenerlo sul binario
come lievito.
Quieto panico nelle compagnie civili.
Le acque che le bagneranno
alla turnazione. Gli operosi allungano la bocca
alla dispensatrice madre ovaiola
perché essa provvede per tutti, tutti
slatta.
«Quando sognavo facevo quello che mi pare… ero
bello e fortissimo…
poi me ne sono accorto e ho avuto come paura…»
(allunghi una gamba o tenti
di scalciarla al fondo, mezzafuori).

Se al deposito precipitano fiacchi
sulla panca del lavoro, noi ne – sentiamo solo
il tonfo-morto di schianto
giù dalle scrivanie
all’assolo del marciapiede
dove qualcuno piange senza audio
e io sì, avrei dovuto
lasciare l’elemosina, un vulnerabile
sempre bisogna che qualcosa
dare che sublima la perfezione, al saldo
di una qualunque vetrina di sofferenza, quando lo sguardo
cade.
Dunque di nuovo al principio, all’innesto,
se ti fermi devi ricominciare
la tua creatura – di nuovo piegati verso
di me, di dentro noi, e più crescevamo e non
per il cappio della costola…

Sei un figlio di nuovo ficcato
nella nutrizione – il re del rock and roll
e riprendi a ovulare arrossato
dalle scosse dell’amore
un figlio, due, appesi al chiodo
trapassato della foto, da dove scappano
nella frizione generosa degli inizi e sei
chi lo svertebra questo dio minore
questo
per altra giustizia sommaria – immagino
rimettere nella cellula il suo generativo
sangue sillabico e altro nuovo
sangue e ancora procurarsi
scorte.
(da Gli enervati di Jumièges, postfazione di Pasquale Di Palmo, peQuod, Ancona 2007)