Philippe Jaccottet
La mer est de nouveau obscure. Tu comprends,
c’est la dernière nuit.Mais qui vais-je appelant?
Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne.
Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne
dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris
cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,
tous ces jours sont perdus, déchirés par ses ailes
noires, la majesté de ces eaux trop fidèles
me laisse froid, puisque je ne parle toujours
ni à toi, ni à rien. Qu’ils sombrent, ces «beaux jours»!
Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,
sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.
Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), daL’Effraie(Gallimard, 1953) – Traduzione italiana: P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorant (con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Questa è, a mio avviso, una delle poesie più belle e più intense di Philippe Jaccottet; e anche uno dei tentativi di traduzione che mi sembrano meno insoddisfacenti. La situazione è topica: l’io deve affrontare la fine di qualcosa, un abbandono, la conclusione probabilmente di una storia d’amore, e il tu che appare quasi disperatamente verso la fine è già solo un ricordo, il segno di un dialogo ormai impossibile, l’oggetto di un rimpianto senza soluzioni. Ma questa condizione esistenziale, nota a molti di noi, è potenziata dallo scenario particolare, già annunciato dal titolo: siamo in un luogo di grande e per così dire ufficiale bellezza, Portovenere, dove i grandi poeti inglesi dell’Ottocento come Byron amavano soggiornare; e questa bellezza imponente e marmorea, proprio come il mare in tempesta e la violenza degli elementi, si rendono ora per l’io ancora più insopportabili nella loro indifferenza. Rendono più netto e più vivo il dolore individuale. Tutto questo, che riguarda fin qui l’argomento e le immagini, si può ritrovare nella trama di suoni e di ritmi che attreversa la poesia, che va prima di tutto ascoltata come una musica cupa. Una curiosità conferisce infine al testo una profondità particolare: il pipistrello che si agita frenetico ha cominciato a volare circa un secolo prima, in uno degli Spleen di Charles Baudelaire, compresi nelle Fleurs du mal.
E quel distico finale: che forza!
(Fabio Pusterla)