Parler est facile, et tracer des mots sur la page / antologia, Philippe Jaccottet

Philippe Jaccottet

Philippe Jaccottet

 

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Parler est facile, et tracer des mots sur la page,
en règle générale, est risquer peu de choses:
un ouvrage de dentellière, calfeutré,
paisible (on pourrait même demander
à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse),
tous les mots sont écrits de la même encre,
«fleur» et «peur» par exemple sont presque pareils,
et j’aurais beau répéter «sang» du haut en bas
de la age, elle n’en sera pas tachée,
ni moi blessé.
Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur,
qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire
en y jouant, au lieu de se risquer dehors
et de faire meilleur usage de ses mains.
Cela,
c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur,
qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche
en déchirant les brumes dont on s’enveloppe,
abattant un à un les obstacles, traversant
la distance de plus en plus faible – si près soudain
qu’on ne voit plus que son mufle plus largeque le ciel.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), Chants d’en bas(Payot, 1974; traduzione italiana: P. Jaccottet, Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole, a c. di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 1997).
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Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina
vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa:
lavoro da merlettaia, ovattato,
tranquillo (perfino alla candela si potrebbe
domandare una luce più dolce, più ingannevole),
le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro,
«fetore» e «fiore» per esempio sono quasi uguali,
e quando avrò ricoperto di «sangue» l’intera pagina,
lei non ne sarà macchiata,
o io ferito.
Capita dunque di provare orrore per questo gioco,
di non capire più cosa si voleva fare
giocandoci, invece di arrischiarsi fuori,
e di fare un uso migliore delle proprie mani.
Questo
è quando non ci si può più sottrarre al dolore,
quando il dolore somiglia a qualcuno che viene,
strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge,
abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando
la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino
che non si vede più che il suo muso più largo
del cielo.
Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco
insulto al dolore, e inutile spreco
del poco di tempo e forze che ci resta.
Questa poesia della piena maturità apre una breve suite composta di sette testi e intitolata Parler. Si tratta di una serie memorabile, forse uno dei punti più alti dell’arte di Jaccottet, qualcosa che si potrebbe definire una ars poetica; l’origine è il lutto, il dolore per la perdita di una persona cara e la meditazione dunque sulla morte. Ma, sin dal titolo d’assieme, questa meditazione riguarda anche la poesia stessa, il suo senso e i suoi limiti. Di fronte al male, al dolore proprio e soprattutto altrui, al disfacimento dei corpi: cosa può fare, con che diritto può ancora provare a proporsi la parola poetica? Scrivere (cioè «parlare») è un atto positivo, il gesto che prova a trovare un senso dietro l’apparenza delle cose, o un atto di rinuncia, quasi una viltà di fronte alla pienezza della vita?
Ho incontrato questa poesia e quelle che la seguono molti anni fa, quando ancora non conoscevo nulla di Jaccottet, in un volumetto acquistato a Losanna, e intitolato Chants d’en bas (titolo ben comprensibile, ma non facile da tradurre bene in italiano con tutte le sue risonanze: canti che provengono dal basso, che riguardano ciò che si trova sotto, e così via). Dopo avrei letto il resto. Ma forse, senza questo incontro sconvolgente, non avrei neppure pensato di tradurre Jaccottet.
(Fabio Pusterla)