Come un bambino che giurò vendetta e diede fuoco alla casa paterna e ora è invaso dall’estraneità come da nebbia, e solo sul petto di lui, bersaglio della sua rivolta potrebbe sfogarsi in lacrime, mostrare sul volto buio un sorriso libero, così mi sforzo senza speranza di ritrovare le mie lacrime virtuose. Ho incenerito il mondo nel cuore e non vi è parola buona che mi redima, rannicchiato non aspetto che il miracolo, che venga qualcuno a perdonarmi e mi sappia dire bene cosa mi si deve perdonare in questa tana di lupi.
Un triste uccello si congela sul parabrezza del vicino. Il corpo riempito di neve il becco capace di raccogliere grandine e artigli come falce frantumano il vetro di sicurezza in rifiuti non riciclabili. Il vicino impreca afferra la carcassa dalle ali di ghiaccio la spacca in due raccoglie i pezzi e li lancia nell’aria invernale. Vola! – urla Vola! – inveisce con sangue freddo alla scena dello schema senza vedere le due metà d’uccello animarsi salire per cadere con un’ala sola incunearsi nei suoi occhi arrossati
Bisognerebbe alzare un fuoco grandissimo, perché la gente si riscaldi. Buttarvi ogni cosa,antica e vecchia, rotta e scheggiata,ed anche nuova e intatta….. Ne canterebbe sino al cielo una fiamma ardente e prenderebbe per la mano tutte le genti. Bisognerebbe alzare un fuoco grandissimo…… Strapare le porte di fredde cantine e caricare la fiamma perché dia molto calore. Ahi,bisognerebbe preparare quel fuoco perché si sciolgano tutti dal freddo!
calmati e attraversa senza badare al traffico questa strada isolata dove dietro l’angolo agenti designati stanno nell’ombra e nella nebbia giudicando incongrui i tuoi movimenti nella loro noia interiore tu ignori gli zelanti impiegati statali imbrogliandoli volando sopra le vie con ali che allungano le nuvole congedando le loro preoccupazioni attraversi atterrando nel centro di questo vicinato di proprietà privata facendo visita a nessuno in particolare
Chiude gli occhi il cielo, Chiude gli occhi la casa, sotto trapunta dorme il prato, dormi piccolo Biagio. Si abbassa la testa sulle zampe, dorme l’insetto e l’ape, con loro dorme il ronzio dormi piccolo Biagio. Dorme pure il tram e mentre sonnecchia il rombo, suona il campanello nel sogno, dormi piccolo Biagio. Sulla sedia dorme il cappotto, si riposa anche lo strappo, non si lacera più per oggi, dormi piccolo Biagio. Dormono la palla e il fischietto, la gita e il bosco, dorme pure il buon zucchero, dormi piccolo Biagio. Sarai gigante, e lo spazio, come una biglia, in mano avrai; basta chiudere l’occhio, dormi piccolo Biagio. Sarai pompiere o soldato, pastore di bestie selvagge, vedi si addormenta la mamma, dormi piccolo Biagio.
Quello che nascondi nel cuore, aprilo agli occhi, quello che ti pare di vedere, aspettalo nel tuo cuore. Di amore si muore, chi è vivo – dicono ma la felicità ci vuole, ci manca come un pezzo di pane. Chi è vivo, rimane sempre un bambino, e vuole tornare nel grembo materno o si ama o si uccide, campo di battaglia o letto nuziale. Sarai tu l’ottantenne, che ucciso dalla nuova generazione, mentre muori generi milioni col tuo sangue. Tu la spina nel piede non ce l’hai più, e dal tuo cuore scappa anche la morte. Quello che ti pare di vedere, con la mano devi prendere, quello che nascondi nel cuore, uccidilo o bacialo forte.
Devi gemere e stormire. Bada: è un combattimento. Non spezzarti, perché le mie lacrime amare non sgorghino sul tuo tronco mutilato. Il desiderio prosciuga, come la calura il ruscello. L’amore scaturisce sempre più dal profondo. Non vorrei calare, perché le tue amare lacrime non formino nel tuo grembo sfrenato un mare.
Una domenica verso sera ha preso con due mani la tazza, sorrise e stava là, seduta nel crepuscolo, tranquilla. Dai signori portava a casa in un pentolino la nostra cena; siamo andati a letto, e pensai che loro mangiano assai. Era mia madre, piccola, morì presto, perchè le lavandaie muoiono presto, i loro piedi tremano dalla fatica, e la stiratura fa male alla testa. Per montagna e nuvole c’è il bucato e il vapore, e per cambiare aria puoi salire in soffitta! Si ferma mentre stira, la sua esile figura venne infranta dal Capitale, pensateci proletari! Si è incurvata dal lavare, non sapevo che fosse giovane; nei sogni portava grembiule pulito e la salutò il postino.
Talpa antica porta peste il pensiero non pensato, ficca il muso nel mangiare e da un uomo a un altro corre. Per sua colpa non sa l’ubriaco, mentre in vino strozza il tedio, di sorbire la minestra vuota, ai poveri atterriti. E perché dalle nazioni giusta linfa non spreme lo spirito, una nuova infamia accampa gli uni contro gli altri i popoli. Gracchia a stormi l’oppressione, cala come su carogne, ai cuori; e sul globo la miseria cola come a ebete bava. Fitte all’ago del bisogno le ali delle estati pendono. Come insetti su chi dorme, sulle anime le macchine brulicano. In profondo, gratitudine, fiducia si nascondono, le lacrime bruciano, lottano voglia di vendetta e coscienza. Come lo sciacallo vomita alle stelle le sue urla, al nostro cielo, dove gli strazi ardono, guaísce inutile il poeta… Oh voi, stelle! Rugginose, rozze lame, quante volte siete scese dentro l’anima! (Si sa, qui, solo morire). Eppure ho fede. Piangendo ti prego, bel futuro, non esser cosí arido! Ho fede, non ci impalano piú, oggi, come i nostri avi, una volta. Verrà la calma della libertà, la sofferenza si affína… E finalmente saremo dimenticati anche noi nell’ombra quieta delle pergole.
Non ho padre né madre né Dio né patria né culla né sepolcro né amante né baci. E’ da tre giorni che non mangio né troppo né poco, sono potere i miei vent’anni. Se nessuno li vuole se li compri il diavolo, con cuore puro scardino servisse, uccido anche l’uomo. Mi catturino e m’impicchino con terra benedetta mi coprano erba mortale cresca sul mio bellissimo cuore.
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