Se camminiamo è per andare avanti, per cercare qualcosa, per non abbandonare una speranza. Dimenticando tutto il resto. Tornare ha sempre avuto poco significato. Tornare dove? Riconosciamo i sassi e gli orizzonti: i sentieri ci dicono che ci siamo, che andiamo. Yari Bernasconi (Lugano, 1982), da Nuovi giorni di Polvere (Casagrande, 2015)
Dormiamo stretti io e te come le due cifre della mia nuova età – e se uno nel sonno si gira anche l’altro subito si incunea – i due tre; da una settimana hai trent’anni e un tre anche tu, l’altro non è un numero ma il tondo della tua pancia (e tuttavia il tondo dello stupore) per chi la abita da tre mesi, siamo tre tre. Vanni Bianconi (Locarno, 1977), da Il passo dell’uomo (Marcos y Marcos, 2012)
Cosa ti spinge a scrivere versi? Perché non vendi sale, case, fucili o tabacco? Ci vorrebbe prudenza, sai, perché presto caleranno di nuovo i corvi – neri predicatori dalla stridente voce – per gridare ai quattro venti la tua miseria, mentre sereno in giro te ne vai. Quando il ghiaccio penderà dalle fontane, non avrai altra dimora che una sala d’attesa, dove echeggiando in molte lingue un’unica cosa sono arrivare e dirsi addio.
Puro e concorde è il mondo tratteggiato di piste per le citybikes. L’universo è dei campi di grano, degli uccelli che tagliano a pieno volo. Pietro Montorfani (Bellinzona, 1980), inedito
L’ignorante Più invecchio e più io cresco in ignoranza, meno possiedo e regno più ho vissuto. Quello che ho è uno spazio volta a volta innevato o lucente, mai abitato. E il donatore dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio come un servo che venga a riordinare), e attendo che a una a una le menzogne scompaiano: cosa resta? Cosa rimane a questo moribondo che gli impedisce ancora di morire? Quale forza lo fa ancora parlare tra i suoi muri? Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento parlare veramente, e ciò che dice penetra con il giorno, anche se è vago: «Come il fuoco, l’amore splende solo sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…
Le nuvole si costruiscono in linee di pietra l’una sull’altra leggera volta o arco grigio. Noi possiamo portare poco peso appena una corona di carta dorata; e poi alla prima spina gridiamo aiuto e tremiamo.
1 Parler est facile, et tracer des mots sur la page, en règle générale, est risquer peu de choses: un ouvrage de dentellière, calfeutré, paisible (on pourrait même demander à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse), tous les mots sont écrits de la même encre, «fleur» et «peur» par exemple sont presque pareils, et j’aurais beau répéter «sang» du haut en bas de la age, elle n’en sera pas tachée, ni moi blessé. Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur, qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire en y jouant, au lieu de se risquer dehors et de faire meilleur usage de ses mains. Cela, c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur, qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche en déchirant les brumes dont on s’enveloppe, abattant un à un les obstacles, traversant la distance de plus en plus faible – si près soudain qu’on ne voit plus que son mufle plus largeque le ciel. Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche insulte à la douleur, et gaspillage du peu de temps et de forces qui nous reste. Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche insulte à la douleur, et gaspillage du peu de temps et de forces qui nous reste. Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), Chants d’en bas(Payot, 1974; traduzione italiana: P. Jaccottet, Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole, a c. di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 1997). 1 Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa: lavoro da merlettaia, ovattato, tranquillo (perfino alla candela si potrebbe domandare una luce più dolce, più ingannevole), le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro, «fetore» e «fiore» per esempio sono quasi uguali, e quando avrò ricoperto di «sangue» l’intera pagina, lei non ne sarà macchiata, o io ferito. Capita dunque di provare orrore per questo gioco, di non capire più cosa si voleva fare giocandoci, invece di arrischiarsi fuori, e di fare un uso migliore delle proprie mani. Questo è quando non ci si può più sottrarre al dolore, quando il dolore somiglia a qualcuno che viene, strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge, abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino che non si vede più che il suo muso più largo del cielo. Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco insulto al dolore, e inutile spreco del poco di tempo e forze che ci resta. Questa poesia della piena maturità apre una breve suite composta di sette testi e intitolata Parler. Si tratta di una serie memorabile, forse uno dei punti più alti dell’arte di Jaccottet, qualcosa che si potrebbe definire una ars poetica; l’origine è il lutto, il dolore per la perdita di una persona cara e la meditazione dunque sulla morte. Ma, sin dal titolo d’assieme, questa meditazione riguarda anche la poesia stessa, il suo senso e i suoi limiti. Di fronte al male, al dolore proprio e soprattutto altrui, al disfacimento dei corpi: cosa può fare, con che diritto può ancora provare a proporsi la parola poetica? Scrivere (cioè «parlare») è un atto positivo, il gesto che prova a trovare un senso dietro l’apparenza delle cose, o un atto di rinuncia, quasi una viltà di fronte alla pienezza della vita? Ho incontrato questa poesia e quelle che la seguono molti anni fa, quando ancora non conoscevo nulla di Jaccottet, in un volumetto acquistato a Losanna, e intitolato Chants d’en bas (titolo ben comprensibile, ma non facile da tradurre bene in italiano con tutte le sue risonanze: canti che provengono dal basso, che riguardano ciò che si trova sotto, e così via). Dopo avrei letto il resto. Ma forse, senza questo incontro sconvolgente, non avrei neppure pensato di tradurre Jaccottet. (Fabio Pusterla)
Tipperary, dall’irlandese Tiobraidarann: fonte di percezione, illuminazione, intelligenza (…) È lunga fino a Tipperary e quando ci arrivi niente ti aspetta, né cartelli, né fanfara o comitato di benvevuto che con tanto di stendardo proclami che sei a Tipperary e un medaglione da portare al collo. Troverai solo quanto ti sei portato in cuore. Allora, una cosa devi fare, compiere e lasciare lì un ricordo di quel che la tua Tipperary significa per te, una testimonianza per quanti indietro sono in cammino per le loro Tipperary. È lunga fino a Tipperary e lì posano tutti i nostri cuori. Traduzione diAlessandro Gentili
Poesia n. 320 Novembre 2016 Desmond O’Grady.Tipperary a cura di Alessandro Gentili
La mer est de nouveau obscure. Tu comprends, c’est la dernière nuit.Mais qui vais-je appelant? Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne. Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris, tous ces jours sont perdus, déchirés par ses ailes noires, la majesté de ces eaux trop fidèles me laisse froid, puisque je ne parle toujours ni à toi, ni à rien. Qu’ils sombrent, ces «beaux jours»! Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe, sur qui s’en va la mer saura claquer la porte. Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), daL’Effraie(Gallimard, 1953) – Traduzione italiana: P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorant (con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992) Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci, è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno. Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba in una campana di pioggia. Un pipistrello urta come stupito sbarre d’aria, e tutti questi giorni sono persi, lacerati dalle sue ali nere, a questa gloria d’acque fedeli resto indifferente, se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa, il mare dietro a chi va sbatte la porta. Questa è, a mio avviso, una delle poesie più belle e più intense di Philippe Jaccottet; e anche uno dei tentativi di traduzione che mi sembrano meno insoddisfacenti. La situazione è topica: l’io deve affrontare la fine di qualcosa, un abbandono, la conclusione probabilmente di una storia d’amore, e il tu che appare quasi disperatamente verso la fine è già solo un ricordo, il segno di un dialogo ormai impossibile, l’oggetto di un rimpianto senza soluzioni. Ma questa condizione esistenziale, nota a molti di noi, è potenziata dallo scenario particolare, già annunciato dal titolo: siamo in un luogo di grande e per così dire ufficiale bellezza, Portovenere, dove i grandi poeti inglesi dell’Ottocento come Byron amavano soggiornare; e questa bellezza imponente e marmorea, proprio come il mare in tempesta e la violenza degli elementi, si rendono ora per l’io ancora più insopportabili nella loro indifferenza. Rendono più netto e più vivo il dolore individuale. Tutto questo, che riguarda fin qui l’argomento e le immagini, si può ritrovare nella trama di suoni e di ritmi che attreversa la poesia, che va prima di tutto ascoltata come una musica cupa. Una curiosità conferisce infine al testo una profondità particolare: il pipistrello che si agita frenetico ha cominciato a volare circa un secolo prima, in uno degli Spleen di Charles Baudelaire, compresi nelle Fleurs du mal. E quel distico finale: che forza! (Fabio Pusterla)
All’ora incerta in cui la muta dei fantasmi fa ressa alle finestre, e in gran subbuglio per un’esitazione tra ombra e giorno minaccia bisbigliando la chiarezza, un uomo prega: gli è distesa accanto la splendida guerriera inerme e nuda; poco distante giace il loro erede, tenendo stretto come stelo il tempo. “Una preghiera dentro la paura, ardua a esaudire, specie senza soccorso dall’esterno; una preghiera detta dentro il crollo delle città, la fine della guerra, i morti in folla: perché la dolce aurora, la tenace, la luce quando giunge sui crinali, se allontana la lieve luna, così anche la mia favola cancelli, e veli del suo fuoco anche il mio nome”.
Traduzione di Fabio Pusterla
Poesia n. 200 Dicembre 2005 Crocetti Editore 2005
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