Quanto sodo lavori la morte nessuno lo sa quanto lunga sia la sua giornata. Le stira la biancheria il consorte lasciato a casa. Le belle figlie le apparecchiano la tavola per cena. I vicini giocano a pinnacolo in cortile o bevono la birra seduti sui gradini. E la morte frattanto, in città, in angoli remoti cerca qualcuno con una brutta tosse, ma l’indirizzo è, chissà perché, sbagliato, nemmeno la morte può scovarlo fra tutte quelle porte sprangate. E comincia a cadere la pioggia. l’aspetta una lunga notte di vento. Non ha nemmeno un giornale per coprirsi il capo, nemmeno un gettone per chiamare chi si consuma, l’uomo assonnato che piano si spoglia e nudo si distende sul letto dal lato che spetta alla morte.
Sono cresciuto chino su una scacchiera. Amavo la parola scaccomatto. Il che sembrava impensierire i miei cugini. Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia. Fu un professore di astronomia in pensione che m’insegnò a giocare. L’anno, probabilmente, il ’44. Lo smalto dei pezzi che usavamo, quelli neri, era quasi del tutto scrostato. Il re bianco andò perduto, dovemmo sostituirlo. Mi hanno detto, ma non credo che sia vero, che quell’estate vidi gente impiccata ai pali del telefono. Ricordo che mia madre spesso mi bendava gli occhi. Con quel suo modo spiccio d’infilarmi la testa sotto la falda del soprabito. Anche negli scacchi, mi disse il professore, i maestri giocano bendati, i campioni, poi, su diverse scacchiere contemporaneamente.
Go inside a stone That would be my way. Let somebody else become a dove Or gnash with a tiger’s tooth. I am happy to be a stone. From the outside the stone is a riddle: No one knows how to answer it. Yet within, it must be cool and quiet Even though a cow steps on it full weight, Even though a child throws it in a river, The stone sinks, slow, unperturbed To the river bottom Where the fishes come to knock on it And listen. I have seen sparks fly out When two stones are rubbed. So perhaps it is not dark inside after all; Perhaps there is a moon shining From somewhere, as though behind a hill— Just enough light to make out The strange writings, the star charts On the inner walls. Charles Simic (Belgrado, 1938), da Selected Early poems (Mondadori, 1985) – consigliato da Corrado Benigni Càlati in un sasso, io farei così. Lascia che altri si facciano colomba o digrignino i denti come tigri. Mi basta essere un sasso. All’esterno è un enigma: nessuno sa come rispondere. Ma fresco e quiete dev’esserci all’interno. Anche se una mucca lo calca col suo peso, anche se un bambino lo getta dentro un fiume; il sasso affonda, lento, imperturbato, fino al fondo dove i pesci bussano alla sua soglia e vengono a origliare. Ho visto scintille schizzar via quando due sassi sono strofinati, forse là dentro non fa così buio; forse c’è una luna che brilla da chissà dove, spuntando magari dietro un colle – un chiarore appena sufficiente a decifrare quelle strane scritte, mappe stellari sui muri interiori.
Sono il re senza corona degli insonni che ancora sfida i suoi spettri con la spada, studioso dei soffitti e delle porte chiuse che scommette che due più due non sempre fa quattro. Un vecchio bonaccione che suona la fisarmonica mentre fa il turno di notte all’obitorio. Una mosca fuggita dalla testa di un matto, che si riposa su una parete vicino a quella testa. Discendente di preti e fabbri del villaggio, riluttante assistente di scena di due rinomati e invisibili maestri illusionisti, uno chiamato Dio, l’altro Diavolo, presumendo è ovvio, che io sia la persona che dico di essere. Charles Simic (Belgrado, 1938), da The lunatic (Elliot, 2017) – consigliato da Tiziano Broggiato
Mi tramuto in un sacco. Un vecchio stracciaiolo mi porta fuori all’alba. Ci trasciniamo curvi. Ecco qui, dice, la cravatta blu, un uomo l’ha scalata mentre gli stava al collo. Ora lassù singhiozza perché non sa come calarsi giù. Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco? Ecco qui, dice, il cappotto. Il suo nome è Achab, i suoi sono i nostri stracci. È in cerca del sarto che lo ha fatto. Vuole strappare via tutti i suoi fili neri. Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco? Ecco qui, dice, un paio di stivali, mentre andavano a fondo, mentre andavano sotto la loro vita videro in un lampo, dovunque andremo si aggrapperanno a noi. Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco rigonfio di stoppa fino al collo?
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? Hai perso qualsiasi speranza di diventare oro? Nessuno mi risponde. Pallottola. Piombo. Con nomi del genere il sonno è lungo e profondo.
Il tuo amico è morto, quello con cui giravi per le strade a tutte le ore, parlando di filosofia. Perciò, oggi sei andato solo, fermandoti spesso per scambiarti di posto con il tuo compagno immaginario, e ribattere a te stesso sul tema delle apparenze: il mondo che vediamo nella testa e il mondo che vediamo ogni giorno, così difficili da distinguere quando dolore e sofferenza ci piegano. Voi due spesso vi siete fatti trascinare tanto da trovarvi in quartieri strani persi tra gente ostile, costretti a chiedere indicazioni proprio sul ciglio di una suprema rivelazione, a ripetere la domanda a una vecchia o a un bambino che potrebbero essere entrambi sordi e muti. Qual era quel frammento di Eraclito che stavi cercando di ricordare quando sei inciampato nel gatto del macellaio? Nel frattempo, tu stesso ti eri perso fra la scarpa nera nuova di qualcuno abbandonata sul marciapiedi e il terrore improvviso e l’ilarità alla vista di una ragazza abbigliata per una notte di ballo che sfreccia sui pattini.
Scarpe, faccia segreta della vita interiore: due bocche senza denti, spalancate, due pelli d’animale in parte decomposte, fetide come un nido di topi. Un fratello e una sorella nati morti in voi continuano a esistere, guidano la mia vita verso la loro incomprensibile innocenza. A che mai servono i libri quando in voi si può leggere il Vangelo della mia vita sulla terra e oltre ancora, delle cose a venire? Voglio rivelare la religione che ho ideato per la vostra perfetta umiltà e la bizzarra chiesa che ora erigo dove voi siete l’altare. Ascetiche e materne, perdurate: parenti di bovini, santi, condannati, con la vostra pazienza silenziosa siete la sola vera cosa che a me somiglia. Charles Simic (Belgrado, 1938) da Hotel Insonnia (Adelphi, 2002)
Senza voce l’insegnante si alza davanti a una classe di pallidi bambini dalle labbra serrate. La lavagna alle sue spalle tanto nera quanto il cielo che dista anni luce dalla terra. È il silenzio che l’insegnante ama, il gusto dell’infinito che trattiene. Le stelle come le impronte di denti sulle matite dei bambini. Ascoltatelo, dice felice.
Sei stato temperato a puntino con una lametta arrugginita. Poi la mano sconosciuta spazzò i trucioli nel palmo sudato e scomparve alla vista. Stai sulla scrivania accanto al documento dall’aspetto ufficiale con una lunga lista di nomi. Toccava a noi immaginare il resto: l’alto soffitto con le crepe e macchie d’umidità di forma strana; la finestra con la vista dei tetti ricoperti di neve. Un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato la tua severa presenza, mozzicone di matita rossa.
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