Ciao! Né freccia né pietra: io! – La più viva delle donne: vita. Tutte le mie carezze – al sonno tuo incompiuto. Vieni qui! (vale a dire: Tienimi! – è questione di senso) Afferrami tutta così felice e semplice come mi vedi! Stringimi! – che oggi lontano navighiamo, stringimi! – che sciamo! – con un filo di seta! Oggi porto una pelle nuova: quella dorata, la settima! – Mio! – altro che ricompense in cielo, se tra le braccia, sulla bocca c’è la Vita: la felicità sfacciata di dirti ciao ogni mattina!
Non aver paura, sono io. Non senti che su te m’infrango con tutti i sensi? Ha messo ali il mio cuore e ora vola candido attorno al tuo viso. Non vedi la mia anima innanzi a te adorna di silenzio? E la mia preghiera di maggio non matura al tuo sguardo come su un albero? Se sogni, sono il tuo sogno ma se sei desto sono il tuo volere; padrone d’ogni splendore m’inarco, silenzio stellato, sulla bizzarra città del tempo.
Amico caro, la mia furia non è di parole, ma non è neanche di atti: sono passioni dell’anima, assolutamente diverse dalle altre. Nella vita (in una stanza) io sono tranquilla, educata, sfioro appena gli altri con lo sguardo e con la voce – e non prendo mai per prima una mano. Con un essere umano io sono ciò che lui vede, per avermi vera bisogna vedere la me vera, in me ci sono troppe anime – tutte! – a volte, senza volerlo, induco in errore…
Io voglio invece leggerezza, libertà, comprensione non trattenere nessuno, e che nessuno mi trattenga. Tutta la mia vita è una storia d’amore con la mia anima, con la città in cui vivo, con l’albero al bordo della strada, con l’aria. E sono infinitamente felice.
Il tuo nome è una rondine nella mano, il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua. Un solo unico movimento delle labbra. Il tuo nome sono cinque lettere. Una pallina afferrata al volo, un sonaglio d’argento nella bocca. Un sasso gettato in un quieto stagno singhiozza come il tuo nome suona. Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni il tuo nome rumoroso rimbomba. E ce lo nomina lo scatto sonoro del grilletto contro la tempia. Il tuo nome – ah, non si può! – il tuo nome è un bacio sugli occhi, sul tenero freddo delle palpebre immobili. Il tuo nome è un bacio dato alla neve. Un sorso di fonte, gelato, turchino. Con il tuo nome il sonno è profondo.
Io ci sono. Tu – ci sarai. Ci divide un abisso. Io che bevo. Tu – che riardi. Come fare a trovarci? Dieci anni, anzi no, centomila ci separano. I ponti Dio non li fa. “Sii! Ora!” è il mio comandamento. O almeno va’ per la tua strada e lasciami crescere. Io ci sono. Tu – ci sarai. Tra dieci inverni tu mi dirai: “Ora ci sono!”, ma io: “Era tanto tempo fa…”
Non amavo, ma piangevo. No, non amavo, tuttavia solo a te ho dedicato nell’ ombra il volto adorato. Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore: né ragioni né indizi. Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale, solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso. Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte dell’innamoramento degli altri. Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato, che non poteva pregare, ma amava. Non affrettarti a condannare. Ti ricorderò come la più tenera nota nel risveglio dell’anima. Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa (nella nostra casa, in primavera). Non definirmi come quella che ha dimenticato. Io ho riempito di te tutti i minuti tranne il più triste: quello dell’amore.
Mi piace che siate malato ma non di me, mi piace che io sia malata ma non di voi, che mai la pesante sfera terrestre scivolerebbe sotto i nostri piedi. Mi piace che si può essere spiritosa – indisciplinata – e non giocare con le parole e non arrossire per una asfissiante ondata toccandosi con le mani con leggerezza. Mi piace anche che voi – in mia presenza – abbracciate tranquillamente un’altra: non condannatemi a bruciare nel fuoco dell’inferno perché non vi bacio, perché il mio tenero nome, mio caro, non menzionate né di giorno né di notte – invano. Perché nel silenzio di una chiesa non canteranno mai sopra di noi “alleluja!” Grazie a voi, col cuore e con la mano, perché voi – senza neanche saperlo – mi amate così tanto: per la mia quiete notturna, per la rarità degli incontri nelle ore del tramonto, per le nostre non passeggiate sotto la luna, per il sole non sulle nostre teste, poiché voi siete malato – purtroppo! – non di me, perché io sono malata – purtroppo! – non di voi.
Non so se sei vivo o sei perduto per sempre, se posso ancora cercarti nel mondo o ti debbo piangere mestamente come morto nei pensieri della sera. Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera e l’illanguidente febbre dell’insonnia, lo stormo bianco dei miei versi e l’azzurro incendio degli occhi. Nessuno mi è stato più intimo di te, nessuno mi ha reso più triste, nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento, nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.
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