Essere foglia e obbligata a comportarsi come tutte le foglie, pur capendo e perfino potendo essere in tutto e per tutto altro: ma da ciò – a sorpresa – non trarre la conclusione che tu sei altro dalle foglie, ma che loro, le foglie, sono altro da sé. Ecco una definizione. Ana Blandiana (Timișoara, 1942) da Un tempo gli alberi avevano occhi (Donzelli editore, 2004)
Dovremmo nascere vecchi, già dotati d’intelletto, capaci di scegliere la nostra sorte in terra, quali sentieri si avviano dal crocevia d’origine e irresponsabile sia solo il desiderio di andare avanti. Poi, andando, ringiovanire, ringiovanire sempre più, maturi e forti arrivare alla porta della creazione, varcarla e nell’amore entrando adolescenti, essere ragazzi alla nascita dei nostri figli. Sarebbero più vecchi di noi comunque, ci insegnerebbero a parlare, per addormentarci ci cullerebbero, e noi scompariremmo sempre più, divenendo sempre più piccoli, come un chicco d’uva, come un pisello, come un chicco di grano…
Cerco il principio del male come da bambina cercavo i margini della pioggia. Con tutte le forze correvo per trovare il luogo dove sedermi a terra a contemplare da una parte pioggia, da una parte niente pioggia. Ma sempre la pioggia smetteva prima che ne scoprissi i confini e ricominciava prima di capire fin dove è sereno. Invano sono cresciuta. Con tutte le forze corro ancora per trovare il luogo dove sedermi a terra e contemplare la linea che separa il male dal bene. Ma sempre il male smette prima che ne scopra il confine e ricomincia prima di capire fin dove è bene. Io cerco il principio del male su questa terra volta per volta grigia e assolata.
Non io decido. Gli atomi si fanno sabbia, la sabbia forma pietrisco, il pietrisco si trasforma in lettere le lettere , in boccio, germogliano, fruttano parole, le parole si fanno animali, si accoppiano, e figliano. Non io decido. Mai quando vedo una parola gravida, so chi è il padre.
All’alba, quando l’aria della notte si ritira silenziosa nell’emisfero della nostalgia, il calice minuscolo del fiore trasale diffondendo un suono fondo, vibrante come un gemito di cattedrale, simile all’echeggiare della più assordante campana; peccato che il nostro orecchio non è fatto per udirlo e nessuno mai ci dice per chi rintoccano le campane dei fiori. Ana Blandiana (Timișoara, 1942), da Un tempo gli alberi avevano occhi (Donzelli editore, 2004)
Non ho un’altra Ana, mi muro da me, e chi può dirmi che è sufficiente, se il muro non crolla da sé, ma per l’urto e il capriccio di un bulldozer sonnambulo che avanza stolido nell’incubo. E continuo a murare come se costruissi un onda, il secondo giorno ancora, il terzo giorno ancora, il quarto giorno ancora, destinato a franare sulla sponda; e continuo a murare, oh, calcina e mattoni e, senza macchia, una creatura a impalcatura del sogno infame: Non ho un’altra Ana e me perfino sempre più di rado ho.
Li guardo e mi stupisco Di quanto siano soli. E di quanto siano colpevoli Di essere soli. Li guardo a lungo E mi domando: Quanta solitudine E’ in grado di sopportare ognuno Prima di morire di solitudine? E poi? (Traduzione di Mauro Barindi)
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