Salutami le sobótke ed i santi del vecchio Wovro digiunanti per le strade: ascetici, emaciati santi. La fiamma di sobótka si chinerà, ribollita sulle genziane su due gambe si cullerà. Saluta anche pastori e pastorelli. Nelle sobótke si uniscono i cuori con i legami nascosti dei fuochi – – poesia è conforto – la figlia della sobótka. Salutami Madohora con i pini arruffati. Bello oggi da noi – in montagna.
E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina, si riuniscono i cardinali – una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno. Giunge proprio qui. E Michelangelo li avvolge, tuttora, della sua visione. “In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo… “ Chi è Lui? Ecco, la mano creatrice dell’Onnipotente Vecchio, diretta verso Adamo… Al principio Dio ha creato… Costui che vede tutto… La policromia sistina allora propagherà la Parola del Signore: Tu es Petrus – udì Simone, il figlio di Giona. “A te consegnerò le chiavi del Regno”. La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi, si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina, da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato – Era così nell’agosto e poi nell’ottobre, del memorabile anno dei due conclavi, e così sarà ancora, quando se ne presenterà l’esigenza dopo la mia morte. All’uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo. “Conclave”: una compartecipata premura del lascito delle chiavi, delle chiavi del Regno. Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine, tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio. È dato all’uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio! Una finale trasparenza e luce. La trasparenza degli eventi – La trasparenza delle coscienze – Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni al popolo – Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius. Tu che penetri tutto – indica! Lui additerà…
Se non sono radice e solo questo, ahi, quando si vedranno il mio stelo e i miei fiori, e quando nasceranno i frutti? Quale giorno attende il tempo, quale l’aria, e perché Dio mi vuole lancia oscura nella sua dura terra? Non è che non voglio più essere radice quando già posso esser tronco, foglie, rami, dei miei fiori più belli. Frutto fra i denti degli uomini, voglio continuare ad essere radice. Spiccare il salto trascinando terra e unirla al cielo. Sempre radice, tra il grano scuro come ora sono scura. Ma andando verso il regno del volo, camminando tra le brezze; essere il porto degli uccelli, il legno della nave, e che le coppe si colmino del mio corpo e della mia essenza. Se non spero d’essere fiore, aprirmi in frutto, avere tra le mani terra e cielo, vibrare come colonna tra i due… Tu Dio; tu che mi hai creato, non costringermi ad essere una radice della terra: radice, solo radice: profonda radice!
Traduzione di Gabriele Morelli
Poesia n. 321 Dicembre 2016 Carmen Conde. Senza Eden a cura di Gabriele Morelli
— e ora qualche passo da parete a parete, su per questi gradini o giù per quelli, e poi un po’ a sinistra, se non a destra, dal muro in fondo al muro fino alla settima soglia, da ovunque, verso ovunque fino al crocevia, dove convergono, per poi disperdersi le tue speranze, errori, dolori, sforzi, propositi e nuove speranze. Una via dopo l’altra, ma senza ritorno. Accessibile soltanto ciò che sta davanti a te, e laggiù, a mo’ di conforto, curva dopo curva, e stupore su stupore, e veduta su veduta. Puoi decidere dove essere o non essere, saltare, svoltare pur di non farti sfuggire. Quindi di qui o di qua, magari per di lì, per istinto, intuizione, per ragione, di sbieco, alla cieca, per scorciatoie intricate. Attraverso infilate di file di corridoi, di portoni, in fretta, perché nel tempo hai poco tempo, da luogo a luogo fino a molti ancora aperti, dove c’è buio e incertezza ma insieme chiarore, incanto dove c’è gioia, benché il dolore sia pressoché lì accanto e altrove, qua e là, in un altro luogo e ovunque felicità nell’infelicità come parentesi dentro parentesi, e così sia e d’improvviso un dirupo, un dirupo, ma un ponticello, un ponticello, ma traballante, traballante, ma solo quello, perché un altro non c’è. Deve pur esserci un’uscita, è più che certo. Ma non tu la cerchi, è lei che ti cerca, è lei fin dall’inizio che ti insegue, e il labirinto altro non è se non la tua, finché è possibile, la tua, finché è tua, fuga, fuga —
Lo chiamiamo granello di sabbia. Ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia. Fa a meno di un nome generale, individuale, permanente, temporaneo, scorretto o corretto. Del nostro sguardo e tocco non gli importa. Non si sente guardato e toccato. Ech e sia caduto sul davanzale È solo un’avventura nostra, non sua. Per lui è come cadere su una cosa qualunque, senza la certezza di essere già caduto o di cadere ancora. Dalla finestra c’è una bella vista sul lago, ma quella vista, lei, non si vede. Senza colore e senza forma, senza voce, senza odore e senza dolore è il suo stare in questo mondo.
Ti togli, ci togliamo, vi togliete cappotti, giacche, gilè, camicette di lana, di cotone, di terital, gonne, calzoni, calze, biamcheria, posando, appendendo, gettando su schienali di sedie, ante di paraventi; per adesso, dice il medico, nulla di serio si rivesta, riposi, faccia un viaggio, prenda nel caso, dopo pranzo, la sera, torni fra tre mesi, sei, un anno, vedi, e tu pensavi, e noi temevamo, e voi supponevate, e lui sospettava; è già ora di allacciare con mani ancora tremanti stringhe, automatici, cerniere, fibbie, cinture, bottoni, cravatte, colletti e da maniche, borsette, tasche, tirar fuori -sgualcita, a pois, a righe, a fiori, a scacchi- la sciarpa riutilizzabile per protratta scadenza.
Un miracolo comune: l’accadere di molti miracoli comuni. Un miracolo normale: l’abbaiare di cani invisibili nel silenzio della notte. Un miracolo fra tanti: una piccola nuvola svolazzante, che riesce a nascondere una grande pesante luna. Più miracoli in uno: un ontano riflesso sull’acqua e che sia girato da destra a sinistra, e che cresca con la chioma in giù, e non raggiunga affatto il fondo benché l’acqua sia poco profonda. Un miracolo all’ordine del giorno: venti abbastanza deboli e moderati, impetuosi durante le tempeste. Un miracolo alla buona: le mucche sono mucche. Un altro non peggiore: proprio questo frutteto proprio da questo nocciolo. Un miracolo senza frac nero e cilindro: bianchi colombi che si alzano in volo. Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti: oggi il sole è sorto alle 3,14 e tramonterà alle 20.01 Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe: la mano ha in verità meno di sei dita, però più di quattro. Un miracolo, basta guardarsi intorno: il mondo onnipresente. Un miracolo supplementare, come ogni cosa: l’inimmaginabile è immaginabile.