Se si spegne la mia esistenza, il violino del grillo chi l’adora? Sul ramo ghiacciato la fiamma chi la spira? Sull’arcobaleno chi si adagia? Chi rende morbido campo la roccia, piangendo, mentre l’abbraccia? Le crepe nella mura chi l’accarezza? E da bestemmie chi alza cattedrale per fedi sconvolte? Se si spegne la mia esistenza, l’avvoltoio chi lo scaccia via? E sull’altra sponda del fiume chi lo porta l’amore?
Dio mi dia fortuna, amore, mi dia forno bello caldo, frumento nel mio staio, nella mia mano un’altra, nella lampada la fiamma, che non debba ancora andare a letto a quest’ora. Mi mandi le risposte a tutte le mie domande, perchè non crolli la mia fede, mi dia tanta luce, al posto di tomba dia vita, – per me chiedere non è vergogna, ma anche se non lo chiedo me lo dia.
Vi invito alla trasparenza vi invito all’istante di verità Che vale una vita come la nostra vi chiedo Osservate l’infinito delle costellazioni osservate il lungo cammino della nostra specie intelligente immergetevi nel dedalo senza uscita dell’uomo ma meditate infine fermate la macchina infernale dell’accumulazione infrangete il tempo del progresso senza memoria ricordatevi della vostra infallibile ferita accettate questo piccolo lotto di smarrimento Così voliamo in soccorso del futuro
Nessuno parlerà nella lingua arcaica dell’anima con questa musica di cuore che si scortica e quel mormorio di lacrime che fendono la pietra Con quelle parole intagliate nelle radici e il becco ricurvo dell’aquila Con il tuono che sghignazza col fuoco che s’inghiotte e risputa Con il panico e la promessa di sette flagelli Con la stella che appare e il delirio che ha senso Con la folla in preghiera e i tiranni che muoiono di uno strano mal di testa Ma dove sono i profeti di un tempo?
L’epoca è banale meno sorprendente della tariffa di una prostituta I satrapi si divertono parecchio al gioco della verità I diseredati si convertono in massa alla religione del Lotto Gli amanti si separano per un chilo di banane Il caffè non è né più né meno amaro L’acqua resta sullo stomaco La siccità colpisce i più affamati I sismi si compiacciono nel complicare il compito dei soccorritori La musica si raffredda Il sesso guida il mondo Solo i cani continuano a sognare per tutta la durata del pomeriggio e delle notti
Non vedo mia madre da vent’anni si è lasciata morire di fame dicono si togliesse ogni mattina il foulard dalla testa per sbatterlo in terra sette volte maledicendo il cielo e il Tiranno io ero nella caverna là dove il forzato legge nelle ombre e dipinge sulle pareti il bestiario dell’avvenire Non vedo mia madre da vent’anni mi ha lasciato un servizio da caffè cinese le cui tazze si rompono l’una dopo l’altra senza che m’importi per quanto sono brutte Ma ne amo ormai solo il caffè oggi, quando solo chiedo in prestito la voce di mia madre o meglio è lei che parla dalla mia bocca con le sue bestemmie, grossolanità e imprecazioni l’introvabile rosario dei suoi diminutivi tutta la specie in estinzione delle sue parole non vedo mia madre da vent’anni ma sono l’ultimo uomo sulla terra a parlare ancora la sua lingua
C’è un cannibale che mi legge è un lettore ferocemente intelligente un lettore di sogni non lascia passare una parola senza soppesarne il peso di sangue Solleva perfino le virgole per scoprire i frammenti di scelta Lui sa che la pagina vibra di una splendida respirazione Ah quel subbuglio che rende la preda allettante e già sottomessa Lui attende la fatica che cala sul volto come una maschera di sacrificio cerca la crepa in cui balzare l’aggettivo di troppo la ripetizione che non perdona C’è un cannibale che mi legge per nutrirsi
Ci sarà in fondo a una grotta o a un deserto il solito superstite di olocausti catastrofi nucleari epidemie informatiche Alcuni già se ne figurano la gioia gli affibbiano l’ingegnosità di Crusoé l’incitano a lasciare la sua tana per ripubblicare la genesi fare uscire della sua coscia la femmina e concepire Ma egli finisce per coricarsi ricoprirsi di sabbia Decide di iniziare lo sciopero della vita
Il sentimento non è più lo stesso Cari fratelli e sorelle non siete da biasimare Folle di persone agitate e furiose Che si riversano da ogni dove urlando Semplicemente non possiamo più lasciar fare Contro vostri ordini facciamo scudo Certamente questa sarà la fine Di atteggiamenti inflessibili Di ladri avidi e puzzolenti Di pance piene di cibo altrui Di mani macchiate di sangue Di piedi di squadristi che calpestano corpi Le nostre lacrime si sono congelate nel vostro pugno Mentre ci strappavate i capelli Ci siamo rifugiati cercando di riscaldare I feriti con i nostri corpi l’uno contro l’alto Forse ci osservate fermi d’alto Seduti su una panchina lassù in collina Come sciocchi che deridono da una Casa Dipinta di Bianco, torvi e ubriachi Questa è la fine di un danno segreto Laici sostenuti con sentimento per anni Buttati via in gran fretta in tempi di amnesia Mentre un ritornello fluiva da una Notte in Tunisia.
La mia patria è un volto un chiarore essenziale una fontana di sorgente viva È mano che attende trepida il crepuscolo per posarsi sulla mia spalla È una voce di singhiozzi e di risa un sussurro per labbra che tremano La mia patria non ha altro orizzonte che trattenuta tenerezza negli occhi neri una lacrima di luce sulle ciglia È un corpo di tormenti preziosi come un fascio di radici vicino alla tera calda È poesia generata dall’assenza un paese che nasce sul bordo del tempo e dell’esilio dopo un sonno profondo sospeso a un albero dai fragili rami agitati nel vento La mia patria è un incontro avvenuto su un letto di foglie una carezza per dire e uno sguardo per dormire paese lontano dalle parole tanto da calpestare il ricordo Tra le nostre dita un ruscello perché il silenzio sia Il mio viso è di quel cielo ostinato vuoto ferito dall’eleganza del rifiuto La mia caduta il nostro amore albero dissanguato sfigurato dalla grazia spezzata lo stesso dolore ha afferrato i nostri corpi Restano quei versi cordoglio tardivo per una patria che non ha più volto.
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