Yoram sotto le armi

Francesca Brandes

 

Hai più paura
della pace
che della guerra.
Vuoi mappe
che spieghino il mondo
paludi conosciute
di odio
e non uscirne
non rischiare
non toccare con mano
il boccio del cuore
altrui
visi occhi spalle piegate
suoni portati dal vento.
Hai paura della pace
perché la pace
è il cambio di rotta
inversione
assalto al muro
la pace è pugno
che accarezza
fango che si crede casa
casa con più stanze
sorpresa di aprile.
Neve che si scioglie
è pace
pace sul bilico
vertigine con nastri
tamburi nel dirlo
e coraggio.
Mi guardi
l’arma in spalla
e arma sei tu
in ogni fibra
di movimento nodoso
così fragile
nonostante il fucile
che sembri un bimbo
quando gioca ai soldati
in riva al mare.
Hai un piccolo peso
tra gli occhi
un peso che arde e consuma
e braccia per l’amore
la terra l’azzardo.
Sei seme e frutto
di stagione precoce.
Offesa gioventù
che alla gioventù si addice
l’inquietudine,
non il morire senza scopo.

Vita e amore a noi due Lesbia

Caio Valerio Catullo

Caio Valerio Catullo

 

Vita e amore a noi due Lesbia
e ogni acida censura di vecchi
come un soldo bucato gettiamo via.
Il sole che muore rinascerà
ma questa luce nostra fuggitiva
una volta abbattuta, dormiremo
Dammi baci cento baci mille baci
e ancora baci cento baci e mille baci!
Le miriadi dei nostri baci
tante saranno che dovremo poi
per non cadere nelle malie
di un invidioso che sappia troppo,
perderne il conto scordare tutto.

vene perdute

Luciano Cecchinel

 

di maglie tese è il mio setaccio:
in trasparire rapido,
quasi lampo di ghiaccio,
vi fremono voci e volti di schiuma
prima di ritornare a un alveo torbido
come a un’improvvisa distante bruma
troppo larghe le brecce
per un errore
ammaestrato a un silenzio senza tracce
dal tempo e dal dolore
da Lungo la traccia

Veneziana

Diego Valeri

Diego Valeri

 

La biondina è sul balcone,
capo chino, ciglia basse,
tra le pallide erbe grasse
e il geranio vermiglione.
L’aria, i muri, il rio deserto
nel crepuscolo che muore
sono fisi al nuovo fiore
che Iassù risplende aperto.
Lei però non ne sa nulla:
monda attenta il suo giardi
ciglia basse e capo chino.
(Lei non è che una fanciulla
Ora par che all’improvviso
l’abbia alcuno nominata.
Guarda intorno trasognata,
leva al cielo il bianco viso.
Gli occhi d’oro van cercande
qualche ignota strana cosa
nella luce dubitosa
del crepuscolo amaranto.
Ma nel cielo non c’è nulla;
spenti i muri, chiuso il rio
nel suo cupo dondolio.
(Lei non è che una fanciulla.)

Una lunga fedeltà

Francesca Brandes

 

La piccola gioia
cercata
dipende dalla mia
forza
nel cercare,
dal respiro
che precede lo slancio,
dal coraggio
nel vedere le cose
e nel vederle tutte
così.
La gioia è merito
foga di pianta
è
il pigiare delle radici
nella terra.
La gioia è rischio
di tornare.
da L’UNDICESIMO GIORNO
*
D’attesa silenziosa
vive il desiderio
seme nella terra
che bagno
ogni sera al rito.
D’attesa silenziosa
s’illumina il pensiero
lievita il profumo
del pane
e puro è il canto
pulito dalla polvere
di ieri.
Dignitosamente copro
il battito del cuore.
*
Puoi concederti
trame di rughe
ad assediarti gli occhi
quando ridi
il peso del collo
nel camminare
ondivago
il brillìo nel moto
dei capelli alle tempie.
Io
vedo cascate
nelle tue braccia
segni d’orizzonte
a cingere
stravaganti intese
e poco importa
che passi il tempo
il tuo mutare
mi è bellezza.

una sola moltitudine

Igor De Marchi

Igor De Marchi

 

Gli uomini sono tutti uguali.
Davanti alla legge, davanti a dio.
Ma quando guardo gli altri
fare le cose fatte bene
bocca sicura e occhiate forti,
salvarsi
con naturale sana decisione
e io non so da che parte prendermi,
so che di fronte agli uomini
gli uomini non sono tutti uguali.
Vibrano le gocce
di pioggia sul vetro della macchina.
Hanno una pancia alcune un percorso
da rio delle amazzoni
quando vanno giù, una pronuncia.
Poi sono la pioggia, sono l’acqua.
Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), inedito

Un torso

Arrigo Boito

Arrigo Boito

 

Quel tono era una Venere
Che un arcaïco scalpello
Creò ne’ suoi più fervidi
Morsi d’amor col Bello;
Oggi, marmoreo enigma
Dall’olimpico stigma,
Di tant’arte non resta
Che un busto senza testa.
Pur nelle tronche viscere
La Dea non è ancor morta,
Un’agonia di secoli
La fece fredda e smorta,
Ma nella nuda fibra
Palpita, guizza, vibra,
Quasi monco serpente,
L’Eginetica mente.
Così le fece il genio
Le piaghe sue più grame,
E le eternò il martirio
Di Mosca e di Bertrame.
Pur colle rotte braccia
Quel torso ancor m’allaccia,
E al secolo che raglia
Sembra cercar battaglia.
O monti! o cime candide
Della serena Paro!
Brezze marine! tremulo
Irradiar del faro!
Autunni e primavere
Dell’erme tue scogliere!
Delle tue dolci dune
Albe! tramonti! lune!
In alta pace estatica
Tu là dormivi, o sasso,
Nè a te giungeva l’alito
Di questo mondo basso;
Lenìan tua bianca grana
Carezze di lïana,
Ed albergavi il trillo
D’un solitario grillo.
E quando i due crepuscoli
Splendean sull’orizzonte.
Tu, coronando il placido
Profilo del tuo monte,
Lanciavi al ciel favilli
Di quarzi e di lapilli
Ed abbagliavi al piano
L’errante mandrïano.
Ma poi discese un’Attica
Gente brïaca d’arte.
Seminatrice prodiga
Di monumenti e carte;
Vider per la campagna
La magica montagna
E con gioia rubesta
Ne distaccâr la cresta.
Piombasti e fosti Venere.
Fra citaredi e schiavi
Per te strisciò la polvere
Il folto crin degli avi;
Avesti ara e ghirlande.
Sacerdotesse blande,
Languide danze e fumi
Di roghi e di profumi.
Se ti vedeva il libero
Motteggiator d’Egina
Che il genio avea del fäuno
E la barba caprina,
Per te molceva il riso
Del suo beffardo viso
E in dorica melòde
Sciogliea sull’arpa un’ode.
Poi t’ebbe Roma, emporio
Di statue e di colonne,
Teatro allor di Veneri
Com’oggi di Madonne,
Li cominciò la scoria
Del tempo e della storia
A macular con orme
Di lepra le tue forme.
Vivesti in mezzo al fremito
Dell’orgie e nei triclini
Dove fetèa la nausea
Dei tracannati vini;
Là, fra le turpi e gaie
Follie delle ambubaie
Con un osceno crollo
T’hanno fiaccato il collo.
Povera Dea! vanirono
Allor profumi e canti,
L’irriverente greculo
Ti zuffolò davanti,
Fosti bruttata al piede
Con impudiche scede
E una ciurmaglia sgherra
Ti rotolò per terra.
Sublimi tempi olimpici
E putride cloàche,
E baci di caleïdi,
E sputi di lumache,
Tutto hai provato, e l’asta
Del santo iconoclasta
E lo schiaffo plebeo
Del porco epicureo.
Ma noi questa prosaica
Gente ch’or ti raccolse,
Adoratrice instabile
D’arti sfrenate o bolse,
Oggi forse minaccia
Quelle tue monche braccia
Di più fiero dolore:
Il restäuratore.