È come una mancanza di respiro e un senso di morire quando mi stringe improvviso il desiderio di te tanto lontano e nulla può calmarlo, altro pensiero non può occuparmi, tranne il Paradiso che sarebbe per me lo starti accanto. Ma poiché ciò m’è negato, più cara, molto più cara d’una fredda pace mi è la stretta indicibile – quasi marchio di fuoco che proclami ancora e sempre quanto sono tua. A nessun costo vorrei separarmi da questo mio dolore.
Che dirti, amore mio, che dirti? Che l’uva è vendemmiata ed ogni succo disfatto in dolcezza? Che ragnatele di nebbia hanno striato la terra? Nel bosco tutte le bacche sono ormai cadute, rimane il legno bruno e lucido e l’anno corre alla sua foce lungo le vene dell’ultima foglia.
Che dirti, amore mio, che dirti? Le parole hanno un senso soltanto se le nutre la memoria. Ma tu non hai ricordo di stagioni, tanto meno ricordo di ricordi: sei nuova e fresca, intatta dal declino che rattrista lo sguardo di tua madre mentre fissi serena questo tuo primo autunno.
Lascia sia il vento a completar le parole che la tua voce non sa articolare. Non ci occorrono più le parole. Siamo entrambi il medesimo silenzio. Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine, che l’uno all’altro rendono un semplice raggio. E ci basta.
Ho messo la mia anima fra le tue mani. Curvale a nido. Essa non vuole altro che riposare in te. Ma schiudile se un giorno la sentirai fuggire. Fa’ che siano allora come foglie e come vento, assecondando il suo volo. E sappi che l’affetto nell’addio non è minore che nell’incontro. Rimane uguale e sarà eterno. Ma diverse sono talvolta le vie da percorrere in obbedienza al destino.
Poiché non mi veniva nessuna parola (la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla) ti ho dato il mio silenzio ed ho ascoltato il tuo,
e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza e ancora gioia, mentre accettavamo, come la terra, un nostro tempo di neve, bianco grembo d’attesa delle future estati.
Se il muro fosse di pietra e non d’aria, se attraverso il muro non si toccassero gli alberi, se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare, se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi alla cintura del carceriere che si allontana: quale sollievo ne avresti nell’orrore!
Perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi, la rocca più imponente può essere distrutta. ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà. E non è muro: nessun muro sarà abbattuto. le sbarre d’ombra sono le vere sbarre, non saranno divelte. tu confini con l’aria, tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera, e sei tu stessa la tua prigione che cammina.
Mi rigiro la carta tra le mani, mi riannodo il respiro nella gola: guardo le lettere con tutte quelle lame, come le ombre delle cose poi mai dette. Faccio buio e dopo accosto il foglio la tua parola piú scura mi fa luce, pulsa nel palmo tutto il suo silenzio. È questo un seme che mai si consuma. Controvento le parole sono solo richiami, saliva che ti torna in bocca. I take – no less than skies – niente di meno del cielo – per me
il mio occhio nella tua mano, la tua lingua sul mio orecchio: così ci conosciamo, toccandoci, perché la pupilla è sgranata per lo sforzo, le papille come scartavetrate.
Se l’asse cede, se la voce affonda, c’è qui, nell’aria, la parola-ramo che ci tiene.