nella polvere scompaiono le scene come fossero bagliori di una notte mai trascorsa se mi abbracci anche una sola volta la guerra scompare abbracciati fuggiamo dagli scannatoi da chi sogna di farsi cadavere tra cadaveri abbracciati fuggiamo dall’empietà di ricondurre i corpi negli spazi della prenascita ci guardiamo nel fondo nero del bosco confusi abitanti del caos boia e animali sacrificali mentre il fiotto soffoca il respiro dei boschi dei nidi di ciò che resta delle case dove avevamo in mente di ritornare come spiegheremo ai figli l’allarme ininterrotto se non sotto una maschera di vergogna? chi ritirerà la posta dalle cassette mentre le arance rotolano dal cesto? Nota: l’espressione in corsivo è tratta da Il cieco canta alla sua città, in Poesia al femminile, Abdulah Sidran, Ed. Saraj, 2006. ENGLISH
mi manca la lingua mi manca quella timidezza di vocali aperte di zeta dolce nel grazie un incurvarsi della voce in gola come a piegarla fossero le pietre salentine del ricordo o forse una malinconia residua della nascita ingorgo che resiste allo sperpero del vivere furore dei cieli di una volta grida bianche dei dolmen che insistono nel vedere il mattino sorgere sulle rovine ogni volta qualunque sia l’inclinazione della luce mi manca quella strana paura prima di ogni viaggio come un sottile rifiuto della distanza come di albero che impone alle radici un limite all’espandersi e si concentra sulla cura dei frutti pure amo tutto questo calpestio di genti nella città l’impasto lento di animelingue il rompersi dei meridiani l’inarcarsi dei ponti per ———– urti gentili questo annodarci annodando i cesti della fiducia con antiche dita da TRITTICI-IL SEGNO E LA PAROLA
una linguasilenzio felice larga piove penetra cantapetali dentro nel dentro innocente sanguelinfahumus permea senso senza metallo che risuoni da muro a muro da spina a spina i dispersi al tocco sussultano si stringono di fronte è la gelida notte lontane le due torri come mammuth emersi domani dalle nevi ecco che galleggia sopra di me un Atlante di sperdimento avvampa così intensa la musica ha forma d’arpa il telaio tutti quei pesi di terracotta a piombo come ghigliottine ora stanno in levità di vibrafoni nel primitivo piegarsi delle spighe spose che vanno, culle luce sul confine tra carezza e lama abbiamo consegnato le ferite insieme alle armi, preferito la festa le lunghissime tavole sonore il miele delle nozze diffuso tornare nudi su terra nuda farsi gola d’agnello mille volte se occorre ancora sangue per il gocciolio della fine porte del mondo che ritornano alberi città come campi da seminare illuminati a regno piove un silenzio-beatitudo sonno infantile, lava che pietrifica una fila di pietre da riscrivere da CICLICA
Uso le virgole come punti di sutura per chiudere le ferite, ma il respiro trova sempre labbra dischiuse e col favore della lingua bacia quel piccolo dolore fino ad arrivare al centro della terra. Tra le cavità orali la narrazione del sangue nutre della mia storia le radici dell’albero genealogico le quali affondano le dita verso il fiume del tempo che scorre fino al tuo nome. Ora la terra trema e arde magma e lava la firma di dio dal vecchio testamento che diventa principio d’una nuova primavera di cui si sente gia l’odore nelle mani protese a semina di scrittura. Raffaele Niro (San Severo, 1973), da Lingua di terra (La Vita Felice, 2013)
Se è vero che la parola vera nasce dal silenzio voglio tacere. Fino ad un silenzio compulsivo Dopo Dopo lo sperpero dei segni, dopo la purificazione delle stanze, spenta l’ultima scintilla sullo schermo soltanto pietre da interrogare Dure. Come irremovibili speranze. Dure come disperazioni Scoprire l’atteggiarsi possibile della bocca a grido nel contagio dell’ambra che rafferma un minimo urlo di Munch Era stella viva tra i rami immobile nel possesso della ragnatela signore dell’equilibrio nella fragilità stratega del fulmineo, fulminato Urlo nel tuo silenzio, taccio nel tuo grido ragno in goccia d’ambra da CURVE DI LIVELLO
Abbiamo altre parole questa notte: un corpo musicale, a vendicare il tempo passato senza fuochi Abbiamo l’alba che batte su pelli tese in sarabanda, furore d’argento sugli olivi, fino al mare – l’eco ingelosisce le grotte – Piedi a scandire colpi d’amore sulla terra E tuoni a dissipare tutte le aracnitudini In piazza l’aria è disegnata di spade con le braccia Le ragazze scintillano la terra dove ballano Volano i cerchi delle gonne alla luna S’incendiano i tamburi. Fino a sangue (A sciogliere i cani ritmici, all’unisono, si sfianca la paura) Nota: questa è una piazza del Salento, dove in una notte d’agosto il suono dei tamburellisti coinvolge la popolazione in un ballo liberatorio collettivo, retaggio di antichi riti dionisiaci. da PORTE/DOORS
increasingly I forget where I’ve parked the car the streets all look the same with their sense of the sea encroaching with the confusing call of stones from the last riverbed a familiar buzzing blows on the nape of my neck on full sails that protect my crossing that’s where this land of mine breathes with its wild motion, waiting, it detaches from the continent, in silence like Saramago’s raft that’s where I must accompany everyone who is gone from me save the voices the maps the travel advice the contagions of light this is why somewhere out there my car is patiently waiting (traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti)
Forse con una donna disperata di te, del tuo mondo non serve dividere corone meglio farsi esuli insieme navigare con lei navicella lunare approdare su placide ginecosfere dove lei è dispensiera di pane e parole Forse con una donna sentire più spesso stupore che istupidimento, soprattutto quando dalle macerie risorgono lentamente i villaggi illimpiditi dal pianto e lei ricomincia a parlare alle rose Forse con una donna ridere insieme della tua enfasi e imperfezione lei complice custode di pienezza e inquietudine del riso e del pathos che non debordi nel suo patimento Ti immerge nella morbida offerta tu colmo di lei le correnti inverti al tuo mare, dissenti dal banditore che eri (ora più aperte sul mondo le porte) da LA POESIA ANIMA MUNDI
è l’ora delle prove distratte di attraversamento senza attenzione a strisce pedonali zigzag sul bagnato senza ombrello senza documenti né borsa né portafoglio schizzo via dalla giunglamercato obliquando rallento prendo fiato rispondo alla domanda muta del venditore ambulante – è da un po’ che mi fissa perplesso – sai la fine mi tiene d’occhio e voglio andare senza direzione come un bambino fare splash nelle pozzanghere se vuoi se hai tempo appena il tiglio smette di gocciolare ti racconto una stupida vita come stupisce come istupidisce sai non si vede non si vede nessuno nessuno è reale piove sempre nella pioggia sbavano i segni ma le pagine accidenti quelle sono insperate di bellezza disperante bellezza irraggiungibile poi i lampi i lampi dall’oltre indecifrabili martellano le tempie e l’umano l’umano nausea fa barcollare ma non mi arrendo calpesto limiti recinti codici e non mi perdono ché anch’io sono umana così mi lascio vivere un vivere piccolo semplice che almeno un po’faccia coesione un rimpicciolirmi come di seme tra i semi
Eri sospesa come in figura il fante o le corde che involano l’atleta la pelle tesa nella postura slabbrata delle cose. Sto alla recita come il cattivo attore il sorriso scontroso al volto spaurito. Sfuggire il silenzio è per sfuggirsi. Laura Sergio (Lecce, 1983), da Il filo della scure (Manni, 2014)
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