Sei la vita e la morte. Sei venuta di marzo sulla terra nuda ? il tuo brivido dura. Sangue di primavera ? anemone o nube ? il tuo passo leggero ha violato la terra. Ricomincia il dolore. Il tuo passo leggero ha riaperto il dolore. Era fredda la terra sotto povero cielo, era immobile e chiusa in un torpido sogno, come chi piú non soffre. Anche il gelo era dolce dentro il cuore profondo. Tra la vita e la morte la speranza taceva. Ora ha una voce e un sangue ogni cosa che vive. Ora la terra e il cielo sono un brivido forte, la speranza li torce, li sconvolge il mattino, li sommerge il tuo passo, il tuo fiato d’aurora. Sangue di primavera, tutta la terra trema di un antico tremore. Hai riaperto il dolore. Sei la vita e la morte. Sopra la terra nuda sei passata leggera come rondine o nube, il torrente del cuore si è ridestato e irrompe e si specchia nel cielo e rispecchia le cose ? e le cose, nel cielo e nel cuore soffrono e si contorcono nell’attesa di te. È il mattino, è l’aurora, sangue di primavera, tu hai violato la terra. La speranza si torce, e ti attende ti chiama. Sei la vita e la morte. Il tuo passo è leggero.
Cari figli, vi scrivo queste poche parole, che spero vi teniate ben ferme nel ricordo mio e di questa casa che sta cadendo a pezzi. Tutto quello che avevo da darvi, ve l’ho dato. Ne avete avuto troppe disgrazie? Non è questo che volevo per voi, vi ho dato tutto, tutto! Per me ho tenuto solo una speranza, e basta! da: Autoscatti(pubblicati su Steve)
Capanne e un’alta veste illuminata mentre nell’azzurro le opache ali formano strumenti e miti animali per il canto fra i rovi, profumata di rugiada è la pietra preparata per l’amoroso sacrificio: calino venti e rapine, ora poveri mali spiantino rive e menti, e si è spezzata su quinte deliziose la saetta di quello sguardo che destando ammuta come per via di un suo lume rinchiuso. Dona il battito una pietà perfetta di foglie e torce al giorno che ti ha illuso facendoti splendente e sconosciuta.
Roberto Rossi Precerutti Rovine del cielo Crocetti Editore 2005
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Cosí li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti.
a Stefania Mentre ti aspetto seduto su una panchina, mi lascio catturare dal modo in cui uno sciame d’api si spinge avanti, contorcendosi e aggrovigliandosi in un intreccio di orbite ellittiche. L’avanzata del sistema è una conseguenza delle derive dei suoi componenti, che sembrano rincorrersi tra loro. Nell’illusione che il numero dei passi sia proporzionale alla distanza coperta, procediamo lungo un percorso a spirale, in cui scopriamo quello che vogliamo dire nell’atto di dirlo, tra errori, dimostrazioni di coraggio e ripensamenti. La capacità di coordinare i movimenti, e avanzare in posizione eretta, è un meccanismo che pare studiato apposta per permetterci di affrontare la lunghissima rincorsa che ci aspetta. Inseguendoci a vicenda, in nome di una particolare forma di contorsionismo che riconosciamo come amore, creiamo un groviglio difficilmente districabile d’interdipendenza, speranze, aspettative disattese o mantenute, e interpretazioni equivoche simili a stelle cadenti. Un’illusione ottica, originata da uno sciame di meteore che si rincorrono invano lungo orbite parallele, sulla traiettoria della Terra, finendo per esserne travolte e sgretolandosi nel contatto con l’atmosfera. Jacopo Ramonda (Savigliano, 1983), da Una lunghissima rincorsa (Bel-Ami Edizioni, 2014)
I. «Chiesi di voi: nessuno sa l’eremo profondo di questo morto al mondo: Son giunta! V’importuno?» «No!… Sono un po’ smarrito per vanità: non oso dirvi: Son vergognoso del mio rude vestito. Trovate il buon compagno molto mutato, molto rozzo, barbuto, incolto, in giubba di fustagno!…» «Oh! Guido! Tra di noi! Pel mio dolce passato, in giubba o in isparato Voi siete sempre Voi…» Muta, come chi pensa casi remoti e vani, mi strinse le due mani con tenerezza immensa. E in quella famigliare mitezza di sorella forse intravidi quella che avrei potuto amare. II. «È come un sonno blando, un ben senza tripudio; leggo lavoro studio ozio filosofando… La mia vita è soave oggi, senza perchè; levata s’è da me non so qual cosa grave…» «Il Desiderio! Amico, il Desiderio ucciso vi dà questo sorriso calmo di saggio antico…» Ah! Voi beato! Io nel mio sogno errabondo soffro di tutto il mondo vasto che non è mio! Ancor sogno un’aurora che gli occhi miei non videro; desidero, desidero terribilmente ancora!…» Guardava i libri, i fiori, la mia stanza modesta: «È la tua stanza questa? Dov’è che tu lavori?» «Là, nel laboratorio delle mie poche fedi…» Passammo tra gli arredi di quel mondo illusorio. Frusciò nella cornice severa la sottana, passò quella mondana grazia profanatrice… «E questi sali gialli in questo vetro nero?» «Medito un gran mistero l’amore dei cristalli.» «Amano?!…» – «A certi segni pare. Già i saggi chini cancellano i confini, uniscono i Tre Regni. Nel disco della lente s’apre l’ignoto abisso, già sotto l’occhio fisso la pietra vive, sente… Cadono i dogmi e l’uso della Materia. In tutto regna l’Essenza, in tutto lo Spirito è diffuso…» Mi stava ad ascoltare con le due mani al mento maschio, lo sguardo intento tra il vasto arco cigliare, così svelta di forme nella guaina rosa, la nera chioma ondosa chiusa nel casco enorme. «Ed in quell’urna appesa con quella fitta rete?» «Dormono cento quete crisalidi in attesa…» «Fammi vedere… Oh! Strane! Son d’oro come bei pendenti… Ed io vorrei foggiarmene collane! Gemme di stile egizio sembrano…» – «O gnomi od anche mute regine stanche sopite in malefizio…» «Le segui per vedere lor fasi e lor costume?» «Sì, medito un volume su queste prigioniere. Le seguo d’ora in ora con pazienza estrema; dirò su questo tema cose non dette ancora.» Chini su quelle vite misteriose e belle, ragionavamo delle crisalidi sopite. Ma come una sua ciocca mi vellicò sul viso; mi volsi d’improvviso e le baciai la bocca. Sentii l’urtare sordo del cuore, e nei capelli le gemme degli anelli, l’ebbrezza del ricordo… Vidi le nari fini, riseppi le sagaci labbra e commista ai baci l’asprezza dei canini, e quel s’abbandonare, quel sogguardare blando, simile a chi sognando desidera sognare…
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce perché la luna non era piu che una cosa immutabile, non alba né tramonto, i miei pensieri svanirono come molte farfalle, nei giardini pieni di rose che vivono di là, fuori del mondo Come povere farfalle, come quelle . semplici di primavera che sugli orti volano innumerevoli gialle e bianche, ecco se ne andavan via leggiere e belle, ecco inseguivano i miei occhi assorti, sempre piu in alto volavano mai stanche. Tutte le forme diventavan farfalle intanto, non c’era piu una cosa ferma intorno a me, una tremolante luce d’un altro mondo invadeva quella valle dove io fuggivo, e con la sua voce eterna cantava l’angelo che a Te mi conduce.
Tu non sai le colline dove si è sparso il sangue. Tutti quanti fuggimmo tutti quanti gettammo l’arma e il nome. Una donna ci guardava fuggire. Uno solo di noi si fermò a pugno chiuso, vide il cielo vuoto, chinò il capo e morì sotto il muro, tacendo. Ora è un cencio di sangue il suo nome. Una donna ci aspetta alle colline.
Anche la notte ti somiglia, la notte remota che piange muta, dentro il cuore profondo, e le stelle passano stanche. Una guancia tocca una guancia; è un brivido freddo, qualcuno si dibatte e t’implora, solo, sperduto in te, nella tua febbre. La notte soffre e anela l’alba, povero cuore che sussulti. O viso chiuso, buia angoscia, febbre che rattristi le stelle, c’è chi come te attende l’alba scrutando il tuo viso in silenzio. Sei distesa sotto la notte come un chiuso orizzonte morto. Povero cuore che sussulti, un giorno lontano eri l’alba.
Ancora cadrà la pioggia sui tuoi dolci selciati, una pioggia leggera come un alito o un passo. Ancora la brezza e l’alba fioriranno leggere come sotto il tuo passo, quando tu rientrerai. Tra fiori e davanzali i gatti lo sapranno. Ci saranno altri giorni, ci saranno altre voci. Sorriderai da sola. I gatti lo sapranno. Udrai parole antiche, parole stanche e vane come i costumi smessi delle feste di ieri. Farai gesti anche tu. Risponderai parole; viso di primavera, farai gesti anche tu. I gatti lo sapranno, viso di primavera; e la pioggia leggera, l’alba color giacinto, che dilaniano il cuore di chi più non ti spera, sono il triste sorriso che sorridi da sola. Ci saranno altri giorni, altre voci e risvegli. Soffieremo nell’alba, viso di primavera.
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