Non è che non mi piaccia l’avventura, va bene anche sposarsi, avere cura. La corsa contromano degli eventi, gridare, nervi tesi, fino al pianto. Va bene il salto a vuoto, il calcolo del rischio. Ma è quel passo incerto del pensiero, lo scricchiolìo del mondo, talvolta, che mi fa un po’ paura. da LA CODA DELL’OCCHIO (Marietti, 2011)
Non sono io che parlo a un gigante neppure somiglio mi vedi alto, pesante ma non più forte. Ricorda il saggio della scuola il maestro e voi bambini in coro timidi e fieri cercando tra i volti quelli familiari. Ci sono nel mondo anime immortali che fanno le parole corpi potenti amano la vita sfidandola, il tempo stretto nella gola. Io sono un’eco soltanto che imita le cose mentre dispero contro i venti. Ma tutto partecipa nei grandi numeri. Continua tu, a credere ai giganti il tuono, il lampo che li avvolge. da LA SPECIE DOMINANTE (Aragno, 2014)
Prima di tutto la linea sottile del cielo, come cornice. Poi il disco solare e netti, attorno i raggi. Quindi una casa, i muri, il tetto spiovente, la porta col battente bene in vista e le finestre appena sopra e simmetriche. La trama si arricchisce poi di piante ornamentali, se capita un uomo, cespugli e infine una nuvola, schiumosa e bianca. Più raramente un cielo nero e gocce di tempesta. Una volta soltanto, durante la messa, Gesù disteso, nella nuvola, a mani aperte, chiaramente sorridente. Così disegnano i bambini, ed io non più. da LA CODA DELL’OCCHIO (Marietti, 2011)
Ti ricordi quando pensavi fosse un assassino l’uomo al tavolo di fronte, la pelle piena di tatuaggi la voce roca, una sigaretta poi l’altra. Mi accarezzavi il braccio e intanto lo guardavi di nascosto. Lui sussurrava ai commensali lo sguardo chino sul piatto. Poi all’improvviso ti guardò ridendo indicando una figura sulla sua spalla, ti piace? Ti vergognasti e lui tornò ai compagni. Parlavano di turni, di squadre del cantiere delle famiglie che andavano in vacanza. E’ gente che lavora, figlio mio, che si fa in quattro, lo vedi dalle mani, gonfie scheggiate, bianche di calce sotto le unghie e ruvide come carta vetrata. La vita a volte è più semplice di noi più trasparente. da LA SPECIE DOMINANTE (Aragno, 2014)
«Che è?», la tua prima domanda. Oforse non è proprio così, forse solo «Chè?», a proposito di tutto: dei suoni, della luce lontana delle stelle, del tuo corpo e del nostro, delle formiche, perché bastano poche lettere in fila per aprire sprofondi, baratri, orridi che noi ricopriamo con affanno di parole, balbettii: è il ginocchio, sono le stelle, sono formiche che risalgono il muro e lì il cancello. Tu però non desisti: «Chè?», continui a chiedere, anche dopo le risposte. Sillabiamo, ripetiamo, ma sappiamo benissimo che hai ragione tu. Massimo Gezzi
(S. Elpidio a Mare, 1976), daIl numero dei vivi (Donzelli, 2015)
Piove da due giorni: la tenda degli scrosci s’infittisce e si dirada, ma ininterrottamente si propaga la sua nuvola d’acqua.La ragazza stringe una tazza bianca, da cui sale un fumo chiaro. Sorseggia lentamente, tiene il sorso nella bocca prima di spingerlo in gola. Si chiede se la pioggia rappresenti un nuovo stato, se tirando le radici di un luogo le scopriamo infinite. Si abita così, credendosi per sempre. Lei beve a sorsi brevi, nel pensiero raccoglie i frammenti dei volti, si domanda perché mai con la pioggia rifioriscano i ricordi. Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare, 1976), da L’attimo dopo (Sossella, 2009)
Un tempo dovevano essere diversi, i ritratti dei fratelli: lui in posa contro uno sfondo prevedibile, solenne (la torre, il castello, l’ampio arco del cielo); l’altra stanca, dimessa, presa quasi di sghembo in una stanza poco nobile, magari la cucina. Adesso che li guardi, con la torre, il castello, la cucina ormai deserti da anni, sono foto di una stessa paura, scatti presi di nascosto nello stesso momento. Massimo Gezzi (S.Elpidio a Mare, 1976), da Il numero dei vivi (Donzelli, 2015)
Se volessi un mattone dovresti prendere un mattone, per rabberciare una muraglia o per tappare una buca in un pavimento a lisca di pesce. Un mattone: un solido che vive dentro tre dimensioni, pesa, al tatto sembra ruvido o poroso, e lasciato ammucchiato assieme ad altri per lungo tempo fa da nido a millepiedi, ragni e forbicine. Un mattone che esiste, che spaccato col martello fa tac una volta sola, un suono bello, di mattone, secco, preciso. Un mattone conta più delle parole che lo imitano appoggiandosi una sopra l’altra. Io con la poesia vorrei fare mattoni. Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare (AP), 1976), daL’attimo dopo (Luca Sossella Editore,2009)
Scarsi reperti, resti. Nella scarpiera in frigo nel posto delle scope pochi grammi di scorie. Come tipo mi accontento di poco. A me mi basta un niente (un niente, 2-3 niente) se è vero che la polvere domestica è composta dal nostro quotidiano sbriciolarci in parte consistente. Questa poesia è così buona che si può dimostrare: me la scrivo e non chiedo cosa c’è da mangiare. Luigi Socci (Ancona, 1966), da Il rovescio del dolore (Pequod, 2013)
Sei rimasto seduto dove stavi seduto da prima senza il cappello per tenere il posto che comunque nessuno vuole. Ti attieni ai fatti. Te li tieni stretti. Guardi sembrare immobile l’acqua dei rubinetti. Luigi Socci (Ancona, 1966), da Prevenzioni del tempo (Valigie rosse, 2017)
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