Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il domani, il dopodomani e le altre albe mi troveranno a tremare mentre nel mio cervello l’ottovolante della critica ha rotto i freni e il personale è ubriaco. Ho paura, tanta paura, e non c’è nascondiglio possibile o rifugio sicuro. Ho licenziato Iddio e buttato via una donna. La mia patria è come la mia intelligenza: esiste, ma non la conosco. Ho voluto il vuoto. Ho fatto il vuoto. Sono solo e ho freddo e gli altri nudi ridono forte mentre io striscio verso un fuoco che non mi scalda. Guardo avvilito questo deserto di grattacieli e attonito vedo sfilare milioni di esseri di vetro. Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il suo motivo, e il cielo e la terra io non posso raggiungerli e toccare… Sono sospeso a un filo che non esiste e vivo la mia morte come un anticipo terribile. Mi è stato concesso di non portare addosso vermi o lezzi o rosari. Ho barattato con una maledizione vecchia ma in buono stato. Fu un errore. Non desto nemmeno più la pietà di una vergine e non posso godere il dolore di chi mi amava. Se urlo chi sono, dalla mia gola escono deformati e trasformati i suoni che vengono sentiti come comuni discorsi. Se scrivo il mio terrore, chi lo legge teme di rivelarsi e fugge per ritornare dopo aver comprato del coraggio. Solo quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota avrò un premio. Sarò citato di monito a coloro che credono sia divertente giocare a palla col proprio cervello riuscendo a lanciarlo oltre la riga che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito. Come potrò dire a mia madre che ho paura? Insegnami, tu che mi ascolti, un alfabeto diverso da quello della mia vigliaccheria.
E come sarà il primo gabbiano in volo sulle discariche? Forse, una creatura ignobile, e attratta dal pattume. Ma disposta a tutto, pur di raspare qualcosa. L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani dai becchi ferrati. Eppure, rimanevano in aria. Mario Santagostini (Milano, 1951), da Felicità senza soggetto (Mondadori, 2014)
Il mio dizionario era minimo, la prosa impraticabile. Ma ho visto nelle parole ansie di protagonismo che vengono da lontano, non so da dove. A volte penso: stanno qui, ma come dopo una caduta. E siamo noi il loro abisso. Noi autori di opere, intendo. Chissà cos’erano, prima. Un surplus d’universo, nemmeno il più dolente: questo è stato il mio primo Canzoniere, in fondo. Mario Santagostini (Milano, 1951), da Felicità senza soggetto (Mondadori, 2014)
Guardavo l’officina dismessa, i tetti di lamiera, il vespaio alla parete, depositi di latta, nafta sui canali. Pensavo ai momenti più scuri della materia: non sono mai abbastanza. In qualche verità nemmeno esiste, quella materia. In altre, è solo afa. O meno che afa, e paradiso è un verbo, alla prima persona. Come, forse, universo. Mario Santagostini
(Milano, 1951), daVersi del malanimo (Mondadori, 2007)
Non è un gran periodo. Dormo male, e a scatti. Solo verso l’alba mi calmo, ascolto piccioni, topi, radio, caldaie, sfiatatoi. Un giorno su due piove, smette, ripiove, il sette di un altro mese comincerà a nevicare. Profonda l’inutilità della neve. Geminatissima, l’inutilità della neve. Non voglio andare via. Voglio andare via. Qualcuno che non sono io ha solo pensieri d’amore. Mario Santagostini (Milano, 1951), L’Idea del bene (Guanda, 2001)
Io cammino per un bosco di larici ed ogni mio passo è storia. Io penso, io amo, io agisco e questo è storia, forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti e di tutte le cose che farò prima di morire saranno pezzetti di storia e tutti i pensieri di adesso faranno la storia di domani.
Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano.
Per M. D. La Riviera è il nostro regno in questo inizio di estate terso come una promessa che si avvera improvvisa e perpendicolare ai morti orizzonti invernali il primo amore è la sorpresa di ritrovarsi in corsa nella luce aperta della strada, appoggiata alla tua schiena mentre l’aria vortica intorno, e ogni cosa sembra sul punto di schiudersi. Mi lascio portare, leggera d’animo e di pensieri, dimentica di tutte le domande rimaste inevase: oggi mi basta sapere quale sarà la spiaggia dove siamo diretti, da cui ci tufferemo tenendoci per mano. Giovanna Rosadini (Genova, 1963), da Fioriture capovolte (Einaudi, 2018)
Respiro nel respiro, ascolto la notte. Ombre lunghe tendono abbracci, invitano a proseguire oltre la siepe sul confine dello sguardo. Accade, ancora, di ritrovarsi nudi, esposti. Restare allora nella notte, accogliere la sua lusinga è un balsamo per chi non lascia tempo alla paura, tenebra è una parola che risolve e cura. Giovanna Rosadini (Genova, 1963), da Fioriture capovolte (Einaudi, 2018)
Metti in versi la vita, trascrivi fedelmente, senza tacere particolare alcuno, l’evidenza dei vivi. Ma non dimenticare che vedere non è sapere, né potere, bensì ridicolo un altro voler essere che te. Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano complicità di visceri, saettano occhiate d’accordi. E gli astanti s’affacciano al limbo delle intermedie balaustre: applaudono, compiangono entrambi i sensi del sublime – l’infame, l’illustre. Inoltre metti in versi che morire è possibile a tutti più che nascere e in ogni caso l’essere è più del dire.
Poesia n. 262 luglio/agosto 2011 Giovanni Giudici. Il dolcissimo fiele a cura di Teresa Franco
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