Forse non tutto è perduto, forse Qualche ragione resta per parlarci. Non tutta la ferita s’è consunta, Da un lembo all’altro cuciono i batteri Quella nostra invisibile pazienza. Allora ascolta, ascolta il tramestìo Di questi giorni, invita a non alzare Le braccia ancora in segno di sconfitta. Roberto Deidier (Roma, 1965), da Solstizio (Mondadori, 2014)
for Nathan Zach Even these are lines of war written while it rages, not far away, not close by and we sit at an odd angle around a lamp-lit table as they deck the doorways with palms even this is a song unto God that He may lower His gaze upon us worms and trample on us loved and unloved ones alike. Not a truce – a gift for this lightning-struck land. * Sit in front of the window look, but accept desperation: there is truth in the moon that shines though it does not rise shield-like against pain it translates itself – as I have just translated from the open facing the wall – it simply links the desk to thought in a wait that burns, but does not explain and it torments every page in the air with fir tree music, hostile lights. ( traduzione in tedesco di Irmela Heimbächer) Winterresidenzen
Benedetta tu a distanza la più innocente tra le cose lontane nicchia di tavolo e mela una sfera un piano e contro l’alta fiamma del fuoco le due forme congiunte a scavare il nitore di un vano. Nulla in realtà ci chiama eppure ci accostiamo agli oggetti quasi fossero gli echi di una voce l’annuncio indifeso di altre vite. L’acqua nera, la sagoma del cane contro il molo. Nessuno può dirli ricordi e fischiare davvero come allora ma noi vediamo le tre stanze, lo scatto di chi ancora viveva e a un tratto gli armadi ci rimandano un fuoco errante la stella incerta di un viso. Nulla è compiuto nulla è ancora profondo. C’è solo il tonfo di una calce improvvisa e queste grida tra felci che sferzano le schiene grida che non capiamo come accade nel buio agli inseguiti. Alberi, corpi, folate contro i muri. Basta un gesto: il rovescio di un gomito che spegne una candela. Di colpo diventiamo ciò che aveva tremato.
Voglio poter un giorno esser marmorizzato senza più nervature o fili di tendini o vene. Soltanto malta aerea, nubilosa, calce spenta, la tunica striata da un vento che non soffia. Valerio Magrelli (Roma, 1957) da Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi, 1996)
Forse se moriamo è per questo? Perché l’aria liquida dei giorni scuota di colpo il tempo e gli dia spazio perché l’invisibile, il fuoco delle attese si spalanchi nell’aria e bruci quello che ci sembrava il nostro solo raccolto?
Viola su questa riva di luce marina avvinghiata agli occhi ha trasformato in missione il suo tempo, pieno fino all’orlo il secchiello vorrebbe per sé un castello d’acqua, il dolore per la mancata meraviglia si rinnova a ogni sicuro fallimento di fronte all’acqua rimangiata dalla sabbia, ma così chiara e amata è la visione come una forza innata nelle braccia. Per mano alla stessa ostinazione si consuma il seme che ti ha dato i giorni, del gioco rimane intatta la speranza, almeno una volta alla resa dei conti vedere la terra non riprendersi tutto. (agosto 2013) Daniele Mencarelli (Roma, 1974)
Ore 11,05. Un fumetto. E un bambino col gilet Ha paura la mattina, Jacopo sente che l’abisso gli frenerà il respiro ha paura che i nipoti vivano impotenti, con un vulcano sotto i piedi e macchie grosse così sulla pelle. Non vuole pensarsi depresso, Jacopo pronto neppure per dieci euro sgualciti nella tasca. Cammina e urla, e gli dispiace, ma urla così piano che lo strano frutto che ha appeso al cuore, non oscilla neppure un po’. da Metro C (2013)
Non esiste innocenza in questa lingua ascolta come si spezzano i discorsi come anche qui sia guerra diversa guerra ma guerra – in un tempo assetato. Per questo scrivo con riluttanza con pochi sterpi di frase stretti a una lingua usuale quella di cui dispongo per chiamare laggiù perfino il buio che scuote le campane. *** C’è una finestra nella notte con due sagome scure addormentate brune come gli uccelli il cui corpo indietreggia contro il cielo. Scrivo con pazienza all’eternità non credo la lentezza mi viene dal silenzio e da una libertà – invisibile – che il Continente non conosce l’isola di un pensiero che mi spinge a restringere il tempo a dargli spazio inventando per quella lingua il suo deserto. La parola si spacca come legno come un legno crepita di lato per metà fuoco per metà abbandono.
A Lorenz dissero (era vero) “Sei un nazista” – mentre ibridando oche selvatiche e domestiche osservava: “Se questo incremento prepotente di pulsioni per la copulazione e l’alimentazione, accompagnato al calo preoccupante degli istinti sociali singolari (e quindi differenti)., valesse anche per l’uomo, sarebbero chiare le ragioni di un conclamato deterioramento: trattasi di specie che ha patito eccessi da addomesticamento”. * Se solo tu sapessi cara la mia mammina che cosa fa tuo figlio da quanto cala il sole fino a tirar mattina. Diventa all’improvviso il più stupido del mondo, cercando vanamente chissà quale sprofondo. E il guaio non è quello a cui tu stai pensando: peccati efferatezze rossetti pornotango. Volesse Dio lo fosse. Il male nel mio caso è solo una credenza: eccitazione autistica che porta all’impotenza.
Una volta ci fu il tempo futuro. Invocato a durare latente nel seno di attesi compimenti e di altri mortali complimenti, più o meno incompleto di verità relative, di errori stanziali. Non importava che ogni cosa amata fosse così arbitrariamente sperata. Biancamaria Frabotta (Roma, 1946), daTutte le poesie 1971-2017 (Mondadori, 2018)
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