Per ogni volta che un uomo strappa con forza da indosso i tessuti di un sogno, per ogni silenzio ancora nascosto in un pensiero di voci e odori, per tutte le pure del buio, per quella pelle che non si lava mai, nemmeno sotto la pioggia della stagione di una donna, per disegni che non raccontano, per le minacce fatte con una carezza, per occhi che non giocano più, per segreti che trattengono anche le nuvole, per la diffidenza che non si cancella, per un corpo che trattiene l’infamia della violenza. Per tutto questo, e per le notti che disegnano notti anche nella luce del giorno io non perdono chi ha strappato di una bambina il sogno.
Ora la collina non è più in fiamme, il fiume si adagia sui sassi e il canneto copre il passare dei giorni. Ora è tempo d ripulire le pietre, di sentire il profumo delle zolle e di conservare i segreti della terra. Radici lontane riaffiorano con la forza dei ricordi. La stessa forza del filo d’erba. La stessa forza del perdente che non teme la sconfitta. Il bisogno ritarda solo la pioggia. Lo senti urlare in silenzio? I nostri passi non sono passi. Sono quello che siamo. Vento sul canneto e terra su terra. Niente di più vero che del semplice esistere.
Le nostre donne siamo noi e tutto quello che ci contiene ha odore di biancheria lavata a mano nello scrittoio dei segreti. Le nostre donne sono girasoli in fiore nella battaglia dei giorni e odore di bucato fresco pulito sempre steso fuori, dopo il calar del sole. Le nostre donne siamo sodalizio taciuto sottoscritto con la vita la tenacia, la dolcezza, gli errori. Delle nostre donne, io sono l’errante. Le nostre donne parliamo lingue diverse alla stessa tavola ma nell’inguine mai interrotto di Dio lavate dalle stesse acque del Giordano-dentro bagnate ognuna d’un colore diverso, insieme, le nostre donne formiamo una bandiera.
Entri dalla mia vita giorni come fossero linfa di betulla e lì ti distrai nel mio golfo di donna come fossi un giorno di festa. Cantano nell’aia le lunghe giornate di primavera da sempre e per sempre la fine dei campi sulla viottola dell’eterno ritorno. Abito il tuo abbraccio nel ricordo di futura memoria con poco più di niente, indosso. C’è un sole che raccoglie ogni sera carezze e promesse fino all’inizio di me, rosseggiando un antico pudore disperdendo al vento la femmina e riesumando dalla polvere la donna.
Sottovoce ci siamo detti le cose migliori, ch’è stato come rubare all’anima quello che la voce mai direbbe. Sottovoce volano i gesti migliori e girando, decantando dal calice delle mani, sul fondo di quel che rimane, -riflette nel gioco dei ricordi del cuore- il nostro volto migliore.
Mi concedo al nulla, girovagando per quei vicoli nascosti del mio dentro confondendoti spesso con il primo pensiero distante. Arrampicarmi sugli specchi, dove, nel tuo riflesso, trovo il mio cedimento e una sconfitta preziosa quanto l’acqua. Tu non lo sai, quanti morsi dà al cuore questa sete.
A te si arriva solo dormendo quando finzione e sogno tracciano lo sguardo di un bisogno.
Nulla oggi che ti somigli: scendi dal mio dolore e cerca l’anima che in te era dentro ai miei giorni, quel fantasma nato dalla matita spuntata del vento.
Quando cadono le assenze è come aspettare il soldato che non è mai partito per la guerra e non sai che divisa indossi;
ogni ramo che nel vento fruscia canta nella tua voce melodie per non udenti.
In te diventa polvere tutto quello che non è sparo. Anche le allodole aspettano dopo l’inverno