Mio padre fabbricava navi di fiammiferi navi con troppe vele e con troppi cannoni belle perché non erano metafora di niente. Stava seduto a terra con il broncio sospeso sul docile cantiere della sua arte sghemba massacrando fiammiferi che asciugava e incollava a uno scheletro d’aria. Come era contento di soffiare il respiro negli ossi di una nave priva di oceani da immaginare.
Me l’hai insegnato tu che non c’è scandalo e non c’è contraddizione in un amore intervallato da qualche ammazzamento. Parlo dei conigli che accarezzavi prima del colpo di karate alla nuca e delle papere che tuo fratello strozzava credendo di interrogarle sul senso dello stare al mondo, ma il disegno è lo stesso anche per gli uomini. Mi hai insegnato che la morte non si augura a nessuno ma uno sbocco di sangue, tre litri di sangue dalle nasche, sì sono una misura correttiva che lucida le cellule e aiuta a sedere composti. Mi hai dimostrato che si può credere in Dio come nel malocchio, perché lì si acquatta il diavolo cazzunale innominabile, ma nominare pene e castighi terreni si può, si deve eccome. Mi hai spiegato che il dolore si custodisce come un mosto che fa dolce la neve e tirarlo fuori dalla buca a dicembre ti fa impazzire di una gioia diversa di pietà per un prossimo che non è mai il vicino di qualcun altro. Solo così per te è giusto impazzire. Questo non dicevi quando la luce ti insanguinava il viso e ti perdevi nel casino di un suq a Palermo, tu che sul lungomare arrossivi ai saluti più innocenti. Volevi raccontarmi l’arrendevolezza dei tuoi vent’anni la regola estrema che diventa fede e un piccolo lascito di rancore.
Mio padre distratto dalle rondini smarrisce le carte del congedo. Conosce la morte degli animali così esatta e disinvolta ma ha dimenticato la sua sul comodino coi documenti. Mio padre chiedeva una canzone allegra e ha avuto un silenzio imperfetto: ero io nascosto in una stanza tra gli a capo sonnolenti dei libri. Voleva un figlio dallo sguardo aperto un figlio maschio che dormisse poco e ne ha avuto uno che rimane sveglio per godersi il riposo degli inconcludenti. Sulla gigantografia del santo che azzittiva la vallata le rondini costruivano i nidi. Mio padre seduto su una panchina me li mostrò un pomeriggio di settembre quei nidi che io non avevo mai guardato.
Non dovete aggiungere altro credo di conoscerli quei segreti così terreni esposti alla luce dei volti le occhiate fuori dalla cornice i desideri in formalina nel nascondiglio bianco di una fotografia. Il sì è un chissà ora che siete spose e aspettate il battesimo di sangue e sperma della prima notte o avete nostalgia di altre notti gli incontri che non dite al confessore e che vi lasciano quasi un sorriso sotto vetro nel primo piano più riuscito.
Carte abbaglianti e pozzanghere nere… hanno pittato la luna sui muri scalcinati! I padroni hanno dato da mangiare quel giorno si era tutti fratelli, come nelle feste dei santi
Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi nella sua galoppata verso il mare, nella sua ressa d’armento sotto i gioghi e i contrafforti dell’interno, vista nel capogiro dagli spalti, fila luce, fila anni luce misteriosi, fila un solo destino in molte guise, dice: “guardami, sono la tua stella” e in quell’attimo punge più profonda il cuore la spina della vita. Questa terra toscana brulla e tersa dove corre il pensiero di chi resta o cresciuto da lei se ne allontana. Tutti i miei più che quarant’anni sciamano fuori del loro nido d’ape. Cercano qui più che altrove il loro cibo, chiedono di noi, di voi murati nella crosta di questo corpo luminoso. E seguita, seguita a pullulare morte e vita tenera e ostile, chiara e inconoscibile. Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta.
Pure sottaterre angùne aspètte a mmi nu zulù spugghiàte e vrusciàte ca n’eterne stàie a lla spiranze di na nuvele ca si skàffe a chiange e po’ non s’ ’mbùnde cchiù sòo vere sicure ca mi ngi ’ggià ’rricriià llà sotte a lla micciune nd’ ’a ’ccisione d’u niùre o muorte so’ cchiù vive di nuie da Canti affilati
vanno verso qualche cosa di ghiaccio i fiumi che pronunciamo tra le sponde dei labbri verso un non scorrere mai divenuti mare un restare alle prese della cute (eterno ghiacciare) uno di noi se mai fosse stato uno di noi qui raggelato quanto manca per dire che siano ossa le lame che frangono la terra? aliti vi siete fatti cristalli in mezzo alla scia bruciando da incerti umani
Addò sòo i? Addò sòo? Cusse i’è u suonne ca mi fàzze non sàcce si so’ spine o curtielle ’ssi cose citte ca m’abbruculèine u sanghe d’o pinziere no’ mmi fàzze capace eccó minnè nd’u liette di vammace angune non pìgghie pace Addò sòo i no’ ng’è morte ca mi strùsce da Canti affilati
La piu grande biblioteca online di poesie in italiano