E la morte non avrà più dominio. E i morti nudi si confonderanno Con l’uomo nel vento e la luna occidentale; Quando le loro ossa saranno scarnite e le ossa polite Scomparse, Avranno stelle ai gomiti e ai piedi; Per quanto ormai impazziti avranno una mente sana, Per quanto anneghino in mare sorgeranno ancora; Per quanto gli amanti si perdano, l’amore resterà; E la morte non avrà più dominio..
La forza che attraverso il càlamo sospinge il fiore E’ quella che sospinge la mia verde età; Quella che spacca le radici agli alberi E’l la mia distruttrice E io non ho parole per dire alla rosa incurvata Che la mia giovinezza è piegata da identica febbre invernale. La forza che spinge le acque attraverso le rocce Spinge il mio rosso sangue; Quella che le correnti prosciuga alla foce Le mie trasforma in cera: E io non ho parole per gridare alle mie venerdì Che alla sorgente montana la stessa bocca sugge. La mano che mùlina l’acqua sul fondo dello stagno Agita sabbie mobili Quella che allaccia il soffiare del vento Tende la vela del mio sudario. E io non ho parole per dire all’impiccato Che la mia creta è fatta con la calce del carnefice. Al getto della fonte le labbra del tempo sorseggiano; L’alore stilla a gocce e si condensa, ma il sangue versato Addolcirà le piaghe di colei che amo. E io non ho parole per dire a tutto l’impeto del vento Come attorno alle stelle il tempo ha scandito un suo cielo. E sono muto per dire alla tomba di colei che amo Come lo stesso verme tortuoso si avvia al mio sudario.
Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa Che nella quiete della notte esercito Quando solo la luna effonde rabbia E gli amanti si giacciono nel letto Tenendo fra le braccia ogni dolore, A una luce che canta mi affatico E non per ambizione, non per pane, Né per superbia o traffico di grazie Su qualche palcoscenico d’avorio, Ma solo per la paga consueta Del loro sentimento più segreto. Non è per il superbo che si apparta Dalla luna infuriata che io scrivo Su questa spruzzaglia di pagine, E non per i defunti che torreggiano Con i loro usignoli e i loro salmi, Ma solo per gli amanti che trattengono Fra le braccia i dolori delle età, E non offrono lodi né compensi, Indifferenti al mio mestiere o arte.
Non andare docile in quella buona notte, I vecchi brucino infervorati quando è prossima l’alba; Infuriati, infuriati contro il morente bagliore. Benché i savi infine ammettano ch’era giusta la tenebra Poiché le loro labbra nessun fulmine scagliarono Non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli onesti, nell’onda ultima, urlando quanto fulgide Le fragili opere potevano danzare in verdi anse Infuriano, infuriano contro il morente bagliore. I bruti che strinsero e cantarono il sole in volo, E tardi appresero d’averne afflitto il corso, Non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli austeri, morenti, scorgendo con vista cieca Che gli occhi infermi splendono e gioiscono come bolidi Infuriano, infuriano contro il morente bagliore. E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego, Condannami, o salvami, ora, con le tue fiere lacrime; Non andare docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi spauriti, pronunciando sillabe sommesse per timore di svegliare le cornacchie, per timore di entrare senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Questo pane che rompo un tempo fu frumento, Questo vino su un albero straniero Nel suo frutto fu immerso; L’uomo di giorno o il vento nella notte Gettò a terra le messi, la gioia dell’uva infranse. Un tempo, in questo vino, il sangue dell’estate Pulsò nella carne che vestì la vite; Un tempo, in questo pane il frumento fu allegro in mezzo al vento; L’uomo spezzò allora il sole, abbattè allora il vento. Questa carne che rompete, il sangue a cui lasciate devastare per le vene, furono Frumento ed uva, nati Da radice e da linfa sensuali; voi Bevete del mio vino, spezzate del mio pane.
Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, bucando Il guscio rotante, potente come il muscolo D’un motore sul trapano, inoltrandomi Nella visione e nel trave del nervo. Da membra fatte a misura del verme sbarazzato Dalla carne grinzosa, limato Da tutti i ferri dell’erba,metallo Di soli nella notte che gli uomini fonde….
Chi sei tu Che vieni generato Nella stanza accanto Alla mia così rumoroso Ch’io posso udire il grembo Aprirsi e il buio scorrere Sopra il fantasma e il figlio rovesciato Oltre il muro sottile come un osso di scricciolo? Nella stanza sanguinosa di nascita ignoto Al bruciare ed al volgersi del tempo E all’impronta del cuore dell’uomo Nessun battesimo si inchina Ma oscurità soltanto Porge benedizione al selvaggio bimbo.
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