Avanziamo verso le barbarie con passi veloci. Sempre più in dentro, sempre più profondo nella caverna. Tramite l’illuminazione degli occhi volano gli anni indietro – come lucciole, sempre più indietro, sempre più indietro… Affondano nel futuro, da dove scappiamo. (Oh, Dio mio, ci fermeremo mai?) Avanziamo verso le barbarie con passi veloci. Sempre più in dentro, sempre più profondo nella caverna. Sono seppelliti nei nostri cuori coperti di mala erba tutte le formule vecchi di fratellanza e umanità. L’unico scopo rimanere vivi. In qualche modo. È l’unica preoccupazione che abbiamo: togliere la camicia del prossimo. Per trenta denari siamo pronti a scannare il nostro fratello. Avanziamo con passi veloci verso le barbarie. Sempre più in dentro, sempre più profondo nella caverna. Sulla nostra fronte crescono i peli. Il cervello inutile si rimpicciolisce fino alla misura prammatica di una noce. La nostra articolazione è stata cambiata dal battito dei denti. È divino solo quello che si mangia. Abbiamo trasformato in osterie e drogherie tutte le librerie tutti i teatri. L’arte é spazzatura arcaica, gettata legalmente nel letamaio. (Sempre più in dentro, sempre più profondo nella caverna.) La poesia é un pavone utile dentro la pentola. Nelle sale deserte i ragni suonano Mozart sulle loro tenere arpe. I venditori hanno scacciato Gesù dal Tempio. Avanziamo, avanziamo verso le barbarie con passi veloci. Ma vorrei credere – magari selvaggi, pelosi, rudi, inferociti, imbestialiti, abbrutiti arrivati nel fondo della caverna, quando non esisterà più indietro, e non c’è il più profondo e quando abbiamo rosicchiato fino alla fine l’osso crudo delle eventi, noi stessi rosicchiati degli insetti operosi oh, credo, che l’oscurità del vicolo cieco in questo vicolo cieco della vacuità ululeremo (come i lupi ululano nella notte d’inverno, contro l’inutile luna), selvaggiamente ululeremo: “Vogliamo Musica e Poesia”. E con testa china partiremo per la strada vecchia e cammineremo a lungo verso l’Uomo Sapiens.
… la cacciò la fame. Oggi è il terzo giorno che non tocca cibo. La pioggia era cessata; splendevan gli abeti al sole e le rocce e i sentieri, come lavati dallo scroscio. Uscì, si guardò intorno. S’avviò verso la fonte, ma scorse una traccia. Un uomo era passato accanto alla sorgente, era andato di là. La scosse un brivido di gelo. Doveva fuggire: dove? In su, la neve aveva coperto e spianato tutto; giù vegliava il nemico. Strinse nella mano la pistola e s’avviò. Dove? Non sapeva. Così tentava. Poteva incontrare un compagno, un amico, un parente, forse. E s’avviò inseguita dalla fame. E marciando scorse su un colle un gregge: no, i pastori non l’avrebbero tradita. Affrettò il passo e corse; ma quattro cani da pastore le s’avventarono incontro, sì feroci ch’essa riuscì appena, tremante e spaurita a strappar dalle fauci la gonna e a riprender la fuga. E correndo, incontrò due bimbi venuti nel bosco a cercar legna. La riconobbero subito, e s’arrestarono, come intimiditi. Ma dopo un istante corsero incontro a lei: — O Vela, zia Vela, nasconditi; la polizia ti dà la caccia! Prendi questo pane e scappa! Le fu caro quell’incontro; da tanto non vedeva più una creatura umana. Li fissò a fondo, negli occhi; e sorrisero i bimbi. Fu come un bagno per il suo cuore. Si congedò. « Voi non direte nulla nevvero? Non avete paura? » « O, no! » E tacquero davvero. Ma un altro non tacque: la guardia forestale. La scorse nel bosco, tornando. L’era parente, un brav’uomo, così lo conoscevano, non poteva tradire! Da lontano egli la vide e la seguì per sette giorni. Da quel momento non chiuse occhio per intere notti. Ma non osava confidarsi a nessuno; lottava entro di se, finché una volta si confidò al suo compagno; e insieme decisero la sorte dell’indifesa fanciulla… Li vinsero centomila leva… Quando mai videro queste montane vette una tale fila di soldati? Giù ai piedi del colle compare, sale strisciando e scende attraverso la strada e si allunga come un arco abbracciando i due versanti delle montagne, e striscia in su, verso il nemico. Il nemico? E’ un uccello addormentato nel nido. Perché temete tanto?… Entra la testa della serpe su, nella pineta, e la coda ancora si torce laggiù in basso. O Arapcal, incoronato dal fulgor del sole, le sue vette son d’oro, risplendono le rocce. Perché taci? Non avvamperà qui la battaglia fra i soldati e la fanciulla? Tra il drago e la samodiva? Un canto canterà la partigiana, Vela; un canto di popolo. E il nostro giorno turbinoso lo tramanderà al secolo avvenire: e sotto sarà inciso con lettere di fuoco, L’UOMO…..
Come una pietra al collo, come il segno di un coltello, come un velo nero, un soldo di rame antico, io ti porto sempre addosso, non importa se mi pesi dalla testa ai piedi, non importa se soffro! Come il segno di una magia, pozione per la mia febbre, come la forte rakia, un dado bianco, già gettato – con il freddo, con il fuoco – tutta la vita – ti giuro o ti benedico, buongiorno e addio, amor morboso mio.
Non aver fretta! – mi sussurrava una segreta voce. – Non è matura l’ora dell’amore! – Ed io, incorreggibile disubbidiente, Soltanto a lei, Dio, ho dato ascolto – né io stessa so il perché. Non aver fretta! – E i grappoli tintinnano – le campane di pioggia e di bronzo solare, e nelle botti il vino sogna la tempesta, si inaridiscono e si screpolano le labbra, salate da una goccia di sangue. Mistero d’amore, io non ti ho riconosciuto nello sbocciare istantaneo della primavera. Come è tangibile ciò che non sfioriamo, come il calice non bevuto inebria, come tutto è amore!
Volevi farmi sentire il profumo dei tigli di Parma. Volevi forse farmici tornare per non scordarti mai. Volevi farmi camminare e assaporare forse le stradine col ricordo del vestito da sposa uscito del vicoletto discreto per festeggiare i nostri 30 anni. Con il groppo stretto alla gola… Ci voleva un soffio solo di tempo per farci trovare qui insieme in questa festa del cuore. Ma non c’e stato quel soffio di vita ancora… Ed eccomi qui da sola con l’ultimo desiderio di ricordarmi qui stretta a te da una vita… Addio, mio Nik. Arrivederci!
Tranquillamente getto uno sguardo indietro. La mia vita non era nè vuota, nè corta. Non mi va di morire, ma non di paura, mi fa rabbia non vedere cosa accadrà dopo.
Vedi là giù nel campo, dove intravvedesi, dove nereggia una decina d’alberi, di salici? Era là giù un villaggio, c’era Bisercia un tempo, or son molt’anni; là venne al mondo, visse là Gergana cara alla mamma.
Gergana un uccellin multicolore, Gergana mansueta pecorella, tra le fanciulle era come una gemma fra perline; e fu il suo primo amor Nikola un bruno agnellino del gregge fra i giovani più belli del villaggio!
E Gergana e Nikola eran così tra loro somiglianti come steli di primola; eran giovani teneri, l’un per l’altra eran nati, eran l’esempio d’un fedele amore.
Amava lui Gergana, l’amava e corteggiava: mattina e sera alla sorgente, al ballo in ciascuna domenica, al lavoro in ciascuna occasione ed ogni notte nei convegni usati dei contadini.
Avvenne a mezzanotte. Scioglievansi i convegni dei contadini e accompagnò Nikola la cara sua Gergana alla sua casa; e di fiori le chiese il mazzolino. Sotto voce risposegli Gergana: “È troppo tardi, amor, pel mazzolino: tramontata è la luna, ma non ancora i galli hanno cantato. Misteriosa è l’ora, maliziosa, infida mezzanotte: brillan le stelle sopra noi, volteggiano sopra di noi le streghe. E spiriti folletti, draghi alati, notturne samodive ci vedranno; ci vedranno, amor mio, ci invidieranno; il mazzolino per amor si dà sol quando spunta l’alba, all’alba il mazzolino è rubicondo; pronto sarà per te domani. Lèvati presto domani per andare al campo, alla sorgente aspettami, abbeverando i bufali; io verrò con le bianche brocche ad attinger l’acqua fresca e pura, e un mazzolin di fiori ti darò, dalla mia fronte alla tua, rimanga a te per mio ricordo…”
Nera una sorte i miseri attendeva: ascoltati li aveva nella notte una nera megera; ascoltati li aveva e invidiati; gettò loro il malocchio, e decise di perderli.
Di buon mattino s’alzò Gergana, si lavò, dinanzi all’icona fe’ il segno della croce. Il Signore pregò sommessamente. Un rugiadoso mazzolino colto, la fronte ne adornò. Prese la brocca, la sollevò sull’omero ed alla fonte si recò. Nikola non vi trovò; ma trovò bianche tende: era un visir di notte tempo giunto, con le sue truppe aveva posto il campo.
Gergana attinse l’acqua, i bianchi piedi si lavò, il visir era assiso davanti alla sua tenda. Guardò Gergana, attonito restò, attonito restò che nel villaggio una tale beltà trovar si possa. La guardò, l’osservò, da bramosia fu colto in cuore ed a chiamarla tosto mandò i suoi servi.
Il visir le parlò così: “Fanciulla, o giovinetta bulgara, perché così di buon mattino sei venuta a prendere acqua fresca alla sorgente?”
“Agà, sono venuta così presto per l’acqua fresca e limpida, perché voglio più presto far ritorno. Il babbo, il mio vecchietto, é frettoloso che al campo ci rechiamo”.
“Vai tu, giovin fanciulla, tu pure al campo vai per abbruciarti di neve il viso e le tenere mani a logorare? Non per questo sei nata tu: sei nata, sei destinata ad essere odalisca, bianca odalisca errar per le terrazze… Or dunque, bianca Bulgara, or dunque vieni, vien con me a Stambùl, anzi che tu per altri t’affatichi, altri per te d’affaticarsi intendano!”
“Io bene, agà, mi trovo qui coi miei vecchi, col babbo e con la mamma; peso non mi dàn le faccende. Io da quando son nata son cresciuta così, sempre, ho vissuto or sui prati, fra vigne, del mio vecchio babbo in aiuto, or alle cure intenta in un perenne alterno affaccendarmi con la mia mamma cara”.
[…]
“Giovin fanciulla stolta! Nulla tu ancor non sai; credi a me, dammi ascolto e troverai la fortuna: sarai una bianca odalisca e porterai oro e seta, starai in aremi splendenti, infilerai gialle monete d’oro con minute perline mescolate!”
“È bello tutto questo, é bello, agà: che tu sia benedetto! Ma io non son che un’umile semplice contadina: non mi son cari arèmi né vestiti di seta; le monete gialle d’oro io non le voglio, né minute perle. Quello che ho mi basta: di finte perle una collana e questa mia trecciolina. E finalmente, arti, vuoi tu saperlo? Se non lo sai, sappilo dunque: ho fatto un giuramento, e a quello che ho giurato sono fedele; il primo amore mio, è Nikola e Nikola sarà mio… “
“O stolida, insensata! che cos’è mai il tuo damo di fronte a me, di fronte al poter mio?!”
“Di fronte a te Nikola non è nulla; ma per me, sappi, è tutto: l’amo, agà, amo lui solo…”
“Tu l’ami, ami lui solo” disse irato il visir “ma tu non hai un tuo volere. Il mio sopra il tuo vale, io sono il tuo signore, il tuo padrone io sono…”
E Gergana rispose: “Sei per la vita il mio signore, agà, ma non sull’amor mio! Senz’amore padrone diverrai d’un gelido cuor morto…”
Fu stupito il visir, della fanciulla la fedeltà amorosa lo colpì: e Gergana lasciò libera e doni le diede a profusione Poi comandò che fosse per ricordo in fontana mutata la sorgente.
***
E la fontana fu costrutta; tosto si sparse pel villaggio la notizia che l’ombra di Gergana v’era stata murata dagli artieri. Era vero, così fu. La fanciulla Gergana s’appassì come una foglia ricoperta di brina, si ammalò, si consunse come un giovane basilico senz’acqua.
Si consunse Gergana a poco a poco, in piedi, per tre mesi; poi giacque in letto. Affannoso Nikola a lei veniva portando streghe e maghi; con erbe varie fu curata: nulla le recò giovamento. Non giunse un anno al termine che l’anima rese al Signore… Tutto il villaggio la compianse e tutti s’adunarono, ognuno un cero accese… Le fanciulle intrecciaron le ghirlande, i garzoni le fecero la bara… Quando di casa la portaron via l’un con l’altro alternandosi, all’oscuro sepolcro la portarono, portarono e lasciarono…
Nikola fido amante di buon mattino il martedì alla tomba andò e d’incenso bianco la cosparse, di rosso vino l’annaffiò, vi accese una candela… Dalla tomba tornò, ma non a casa; d’allora fino ad oggi non s’è visto mai più… Solo sonar profondamente s’ode il piffero suo cupo e mestamente echeggiar quando appare alla fontana Gergana assisa ed a filare intenta là, presso la fontana, al chiarore lunare.
Mi sono abituata al silenzio. Non ci faccio più caso. Di rado lo rammento … Solo un’ombra di ricordo, quel silenzio assordante in testa dopo che te ne sei andato …
Ho imparato a conviverci, a sorridergli pure. E’ diventato amico … Ho cercato forse di rimpiazzarti. Chi sa? …
Il silenzio, quel mio nuovo amico, veniva solo a rinfrescarmi la memoria in caso avessi rimosso – che niente più è come prima, che niente torna come era, che noi pure siamo altri, che facciamo bel viso a quel cattivo giuoco della nostra vita …
Ed il silenzio, l’amico mio nuovo, mi porta sempre per mano con tenacia e costanza, perché ci devo pur arrivare a ridergli d’avanti sfacciata a quella carogna di vita che ci volle stesi e boccheggianti …
Si, proprio cosi, devo, perché proprio glielo devo io alla mia vita … E, guarda , che lo faccio!
La sera. Che diavolo! È sempre la solita! Per me… È il cerchio chiuso… Il cerchio aperto la mattina! La mattina, che amo tanto perchè è speranza. Il cerchio chiuso la sera! La sera che odio, sfido, combatto. La sera che non è dalla mia parte. Odio ricambiato! Tremante! Ansioso! Ahimè! Bisogna soffrire! Tutta una vita? Avrò sbagliato quest’ ultima?!
Lo so, mi giudicherai male che non riesco rallegrarmi in questi giorni euforici. Come diceva un critico (può essere vero) che dal mio laboratorio poetico dal bianco spunta il nero. Perdona Prosti Mi rallegra la libertà. Ma ho la strana sensazione e paura di una nuova ricaduta. Perciò preferisco essere corvo, che canta a nozze, che usignolo a funerale.
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