Alexander Shurbanov
Dentro al guscio
cranico della chiocciola
freme la lingua umida della vita –
sta già cercando
di frantumare lunghi secoli di mutismo
e di allungarsi
verso la prima vocale da pronunciare
al limite estremo
dell’universo.
Dentro al guscio
cranico della chiocciola
freme la lingua umida della vita –
sta già cercando
di frantumare lunghi secoli di mutismo
e di allungarsi
verso la prima vocale da pronunciare
al limite estremo
dell’universo.
La vita si aggrappa sul ciglio del mondo.
Come edera.
O meglio come una cornacchia –
con artigli affilati,
come se fosse risoluta
a restare qui per sempre.
Ma ha anche le ali.
Le braccia – forti, pulite –
sono scoperte sino ai gomiti.
Una mano sostiene
da sotto il bricco in terracotta,
l’altra lo tiene saldamente
da sopra,
piegandolo appena
sopra una ciotola
posta sul tavolo
fra una pagnotta sferica
in un canestro
e un’anfora rigonfia.
Un sottile rivolo di latte
si allunga dal bricco
alla ciotola,
legando insieme
l’intero dipinto.
A sinistra sta la finestra.
Il capo della giovane
è appena inclinato
sulla sua spalla,
i capelli sono raccolti sotto
la cuffia olandese inamidata
con una falda stretta
e l’altra un poco distesa.
Gli occhi, abbassati,
guardano il latte
che continua a fluire.
Non è questo potere dell’arte
davvero meraviglioso?
I secoli scorrono
oltre il bricco in terracotta
mentre si inclina sopra la ciotola
con un angolo immutato,
le guerre imperversano,
le città vengono distrutte dagli incendi,
le navi affondano
e gli aerei si schiantano al suolo,
i governi, gli stati, le nazioni e le filosofie
vanno e vengono,
il mondo si rinnova,
divenendo irriconoscibile.
Eppure questo sottile rivolo bianco di latte
continua a fluire
dal bricco alla ciotola,
e il bricco è ancora pieno,
e il volto
della giovane che non invecchia
trabocca di quiete.
due uccelli si avventano furiosamente
l’uno contro l’altro,
colpendo il vetro con lo sterno,
battendolo con il becco e le ali,
cercando l’uno di raggiungere l’altro.
Uno di loro
non esiste
Certe sere il mare si fa pallido e calmo
come se temesse qualcosa di estraneo
che incombe.
Ma subito l’universo buio china
su di lui il proprio volto sorridente,
i suoi capelli lo avvolgono dolcemente,
e acquietandosi
il mare si placa,
scurisce
e inizia a mormorare
qualcosa di incomprensibile,
eppure sereno e sterminato
come un’eternità,
che nel mondo non ha nulla da temere.
Una fronda davanti alla mia finestra
trema disperatamente.
Prima che io sollevassi lo sguardo
lì c’era un uccello.
Mia stupida bontà, campo della mia rabbia
L’erta da sempre sognata
irrigidimento delle dita sagaci
porta sbattuta con esasperazione.
Non dobbiamo far piangere le nostre amate.
Le amate non dovrebbero piangere.
Ci uccidono, ci stanno uccidendo
ci bastano le allusioni.
Houellebecq ha quindici anni
e parte in viaggio con la scuola.
La Germania è una fiaba, lui ha infilato nella sua borsa
un volumetto di Pascal.
La fila si muove misteriosamente:
ognuno vede davanti a se solo nuche
e si accalcano sul marciapiede del “Ku’dam”.
Capita che lo spazio fra di loro
si allarghi.
Allora si fissano le scarpe, si fanno gli scherzacci
si ignorano le ragazze stupende
fino a quando s’inciampa.
Eccoli qui, tutti, persone, senza catene
senza pena di morte
ma uccisi dall’amore.
Alcuni già freddati, altri tra poco.
Immaginate una fila di pazzi
con forti gambe e braccia,
senza corpi ancora
saranno innamorati
l’uno dell’altra
saranno liberi
Quando siamo arrivati ho visto
che l’albergo era di tre piani
più alto del piccolo convento San Pantaleimon.
Una parente del padre ci ha aperto la porta.
Da poco avevano squartato un maiale,
da qualche parte dentro riempivano salcicce,
la donna era affaccendata, non smetteva di parlare:
altri turisti avevano portato un cagnolino
uggiolava e si arrampicava sulle sue gambe
le infastidiva il suo tremare di freddo.
I suoi riccioli appendevano inconsolati
come spade fuori dalle guaine.
.
Qui tutto sembra una specie di tradizione, dopo trent’anni tutto
in questo luogo di villeggiatura è rimasto all’altezza.
Sto osservando un uomo che una volta chiamavano femminuccia.
Era il ragazzino più bello della classe,
un bel maschietto, altro che femminuccia.
E adesso, l’ora di pranzo, secondo l’abitudine
dei déjà vu sofisticati,
nel giardino estivo del ristorante
con belvedere sulle cime di fronte
vedo lo stesso maschietto da trent’anni mio compagno di classe
che accetta la stessa beffa dai compagni burloni:
“femminuccia”, “donnetta”.
Li ignoro, stringo la penna tra le dita
e guardo altrove come se fossi distratta:
parlare di generi infastidisce.