Il sacrificio dell’ala spezza il volo nel verde della foresta. Cittadino sarai e mutilato caricatura di tucano per la curiosità dei bambini e l’indifferenza degli adulti. Soffrirai l’aggressione di uccelli volgari e morto te ne starai a terra tra formiche e stracci.
Io ti celebro invano come in una festa colorita ma troncata progetto di natura interrotto nell’azzardo di viaggi e d’avventure dall’Amazzonia all’asfalto d’una fiera degli animali. Io ti registro, semplicemente sul quaderno di frustrazioni di questo mondo poiché per questo sei venuto: per l’inutilità di nascere.
Le cose che amiamo le persone che amiamo sono eterne, fino a un certo punto durano l’infinito variabile nel limite del nostro potere di respirare l’eternità
Pensarle è pensare che non hanno fine e dar loro una cornice di granito. D’altra materia si fanno, assoluta dentro un’altra (più grande) realtà
Iniziano a dissolversi quando ci stanchiamo e tutti ci stanchiamo, per un altro itinerario di aspirare la resina dell’eterno
Non pretendiamo più che siano imperiture, ogni essere e cosa restituiamo alla condizione precaria, ribassiamo l’amore allo stato di utilità
Del sogno eterno rimane un gusto ocra nella bocca o nella mente, non lo so
L’ultimo giorno dell’anno non è l’ultimo giorno del tempo. Altri giorni verranno e nuove cosce e ventri ti comunicheranno il calore della vita. Bacerai bocche, strapperai carte farai viaggi e tante feste di compleanno, laurea, promozione, gloria, dolce morte con corale e sinfonia che il tempo ne sarà stracolmo e non sentirai il clamore le grida irreparabili del lupo, nella solitudine
L’ultimo giorno del tempo non è l’ultimo giorno di tutto. Rimane sempre una frangia di vita dove si siedono due uomini. Un uomo e il suo contrario una donna ed il suo piede un corpo e la sua memoria un occhio e il suo bagliore una voce e la sua eco e chissà se anche Dio…
Ricevi con semplicità questo regalo del caso. Hai meritato di vivere un anno ancora. Vorresti vivere per sempre e seccare il fondo dei secoli. Tuo padre è morto, tuo nonno anche. Dentro te molto è già spirato, altro spia la morte ma sei vivo. Ancora una volta sei vivo e col bicchiere in mano aspetti l’albeggiare
La scusa di ubriacarsi la scusa del ballo e del grido la scusa della palla colorata la scusa di kant e della poesia tutto questo… e niente risolve
Sorge l’alba d’un nuovo anno. Le cose sono pulite, ordinate. Il corpo logoro si rinnova in schiuma. Tutti i sensi allerta funzionano. La bocca sta mangiando vita. La bocca è ostruita di vita. La vita scorre dalla bocca imbratta le mani, il marciapiedi. La vita è grassa, oleosa, mortale, surrettizia
Invano percorriamo volumi viaggiamo e ci coloriamo. L’ora presagita si sgretola in polvere per la via. Gli uomini chiedono carne. Fuoco. Scarpe. Le leggi non bastano. I gigli non nascono dalla legge. Il mio nome è tumulto, e si scrive nella pietra.
Visito i fatti, non ti trovo. Dove ti nascondi, precaria sintesi pegno del mio sonno, luce addormentata accesa sulla veranda? Minuscole certezza in prestito, nessun bacio mi risale la spalla per raccontarmi la città degli uomini completi.
Taccio, aspetto, decifro. Può darsi che le cose migliorino. Sono così forti le cose! Ma io non sono le cose e mi rivolto. In me ci sono parole che cercano un canale sono roche e dure irritate, energiche da molto tempo compresse hanno perso il senso, vogliono solo esplodere.
II
Questo è tempo di divise tempo di uomini spezzati. Di mani che viaggiano senza braccia osceni gesti avulsi. La via dell’infanzia è cambiata. E il vestito rosso rosso copre la nudità dell’amore all’addiaccio, nella valle.
Simboli oscuri si moltiplicano. Guerra, verità, fiori? Dai laboratori platonici mobilizzati giunge un respiro che ustiona i volti e dissipa, sulla spiaggia, le parole.
L’oscurità di distende ma non elimina il succedaneo di stella fra le mani. Certe parti di noi come brillano! Sono unghie anelli, perle, sigarette, lanterne sono parti più intime e pulsazione, l’ansimare e l’aria della notte è lo stretto necessario per continuare, e continuiamo.
Non fare versi sugli avvenimenti. Non c’è creazione o morte di fronte alla poesia. Di fronte alla poesia, la vita è un sole statico non riscalda e non illumina. Le affinità, gli anniversari, gli incidenti personali non contano. Non fare poesia con il corpo quest’eccellente, completo e confortevole corpo, tanto avverso all’effusione lirica.
La tua goccia di bile, la tua smorfia di piacere o dolore nell’oscurità sono indifferenti. Non rivelarmi i tuoi sentimenti che s’avvalgono dell’equivoco e tentano il lungo viaggio. Ciò che pensi e senti, questo ancora non è poesia. Non cantare la tua città, lasciala in pace. Il canto non è il movimento delle macchine né il segreto delle case. Non è musica sentita di passaggio, rumore del mare per le vie lungo la linea della schiuma.
Il canto non è la natura né gli uomini in società. Per esso, pioggia e notte, fatica e speranza nulla significano. La poesia (non generare poesia dalle cose) elide soggetto ed oggetto.
Non drammatizzare, non invocare, non indagare. Non perdere tempo a mentire. Non ti annoiare. Il tuo iato di marmo, la tua scarpa di diamante, le vostre mazurche, i vostri scongiuri i vostri scheletri di famiglia nella curva del tempo svaniscono: tutto inservibile.
Non ricomporre la tua sepolta e malinconica infanzia. Non oscillare fra lo specchio e la memoria in dissipazione. Ciò che s’è dissipato, non era poesia. Ciò che s’è frantumato, cristallo non era.
Penetra sordamente nel regno delle parole. Là stanno le poesie che attendono d’essere scritte. Sono paralizzate, ma non c’è disperazione c’è calma e fresco sulla superficie intatta. Eccole sole e mute, in stato di dizionario. Abbi pazienza se oscure. Calma, se ti provocano. Attendi che ognuna si realizzi e consumi con il proprio potere di parola, il proprio potere di silenzio.
Non forzare la poesia a distaccarsi dal limbo. Non raccogliere la poesia che s’è perduta. Non adulare la poesia. Accettala come lei accetterà la sua forma definitiva e concentrata nello spazio.
Fatti più vicino e contempla le parole. Ognuna ha mille volti segreti sotto il volto neutro e ti chiede, senza interesse per la risposta, povera o terribile, che gli darai: Hai portato la chiave?
Attento: vuote di concetto e melodia si sono rifugiate nella notte, le parole. Ancora umide e impregnate di sonno rotolano in un fiume difficile e si trasformano in disprezzo.
E adesso, José?
la festa è finita
la luce s’è spenta
la gente è sparita
la notte è gelata
e adesso, José?
e adesso, per te?
che sei senza nome
ti beffi degli altri
che scrivi i tuoi versi
che ami, protesti
e adesso, José?
Sei senza una donna
sei senza discorso
sei senza dolcezza
e non puoi più bere
non puoi più fumare
sputare non puoi
la notte è gelata
il giorno non viene
il treno non viene
il riso non viene
e né l’utopia
e tutto è finito
e tutto è fuggito
e tutto è ammuffito,
e adesso, José?
E adesso, José?
la tua dolce parola
il tuo istante di febbre
la tua gola e il digiuno
la tua biblioteca
la tua vena d’oro
il vestito di vetro
la tua incoerenza
e l’odio ,e adesso?
La chiave alla mano
vuoi aprire la porta
non esiste porta,
morire nel mare
il mare è seccato,
andartene a Minas
Minas non c’è più.
José, e adesso?
Se tu gridassi
se tu gemessi
se tu suonassi
il valzer viennese
se tu dormissi
se ti stancassi
se tu morissi…
Eppure non muori
sei duro, José!
Da solo nel buio
bestia di foresta
senza teogonia
né parete nuda
a cui puntellarti
né cavallo nero
che fugga al galoppo
tu marci, José!
José, verso dove?
In questa città di Rio
di due milioni d’abitanti
sono solo nella stanza
sono solo in America.
Sarei lo stesso solo?
Proprio poco fa un rumore
ha annunciato vita accanto a me.
Certo non è vita umana
ma è vita. E sento la falena
presa nella zona di luce.
Di due milioni d’abitanti!
E non ci voleva nemmeno tanto…
Ci voleva un amico
di quelli taciturni, distanti
che leggono versi di Orazio
ma in segreto influiscono
sulla vita, l’amore, la carne.
Sono solo, non ho amici
e a quest’ora tarda
come trovare un amico?
E non ci voleva nemmeno tanto.
Ci voleva una donna
che entrasse in quest’istante
ricevesse questa dolcezza
salvasse dall’annichilimento
un istante e una carezza folli
che posso offrire.
Su due milioni d’abitanti
quante donne probabili
s’interrogano allo specchio
misurando il tempo perso
finché non venga il mattino
e porti latte, giornale e calma.
Però, in quest’ora vuota
come scoprire una donna?
Questa città di Rio!
Ho tante parole dolci
conosco voci di animali
so i baci più violenti
ho viaggiato, litigato, imparato.
Sono accerchiato da occhi
mani, affetti, attenzioni.
Ma se tento di comunicarmi
c’è la notte solamente
e una spaventosa solitudine.
Compagni, ascoltatemi!
Questa presenza agitata
che vuole strappare la notte
non è soltanto la falena.
E’, anzi, la confidenza
che esala da un uomo.
Arriva un tempo in cui non si dice più: mio Dio. Tempo d’assoluta depurazione. Tempo in cui non si dice più: amore mio. Perché l’amore è risultato inutile. E gli occhi non piangono. E le mani tessono solo il rude lavoro. E il cuore è secco.
Invano donne battono alla porta, non aprirai. Sei rimasto solo, la luce s’è spenta ma nell’ombra i tuoi occhi risplendono enormi. Sei tutto certezza, non sai più soffrire. E dai tuoi amici non t’aspetti nulla.
Poco importa la vecchiaia, cos’è la vecchiaia? Le tue spalle sopportano il mondo, e il mondo non pesa più della mano d’un bambino. Le guerre, la fame, le discussioni negli edifici provano soltanto che la vita prosegue e non tutti si sono ancora liberati. Alcuni, trovando barbaro lo spettacolo hanno preferito (i delicati) morire.
E’ giunto un tempo in cui non serve morire. E’ giunto un tempo in cui la vita è un’ordine. La vita e basta, senza mistificazione.
Cura e traduzione di Massimiliano Damaggio
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