lo penso: e vedo (o sogno) un piccolo villaggio, una gran pace: dentro, un cantar di galli. E il piccolo villaggio si smarrisce in un fiaccar di neve. Entro il villaggio in abito da festa una casetta bianca. Furtiva accenna una testina bionda tra le cortine mosse. Schiudo la porta; e i cardini, stridendo, chIedono fiochi aiuto. Poi, nella stanza, un timido e sommesso profumo di lavanda.
(…) In un vestito di fiamme che rotolano nel cielo è così che mi sentii la notte che mi disse che aveva un’amante e con timido orgoglio tirò fuori una foto.
Non posso vederne la faccia ho detto con rabbia, buttandola a terra. Mi ha guardata.
Eravamo alla finestra (di un ristorante) in alto sulla strada, sposati da poco più di un anno.
Un lavoro veloce dissi io. Sarai maligna disse lui. Ruppi il vetro e saltai. Adesso certo sai
che non è questa la verità, ciò che si ruppe non era vetro, ciò che cadde a terra non era corpo. Tuttavia quando ricordo quella conversazione questo è ciò che vedo – me stessa come il pilota di un caccia che si salva sul canale. Me stessa come preda.
Oh no non siamo nemici disse lui. Ti amo! Vi amo entrambe. Non sembra il Signor Rochester che digrigna i denti e dice in meno di due minuti con il suo strisciante verde sibilo
la gelosia può divorarci fino al cuore, una formula che gli si presenta mentre sedeva nel muschio e nell’ambra del suo balcone parigino
e guardava la sua bella da operetta al braccio di un cavaliere sconosciuto? Rimanere umani è rompere un limite.
Mattino infine: là nella neve le tue lievi impronte d’arrivo e di ritorno. Null’altro ci ha lasciato la notte di visibile, non la candela, il vino bevuto a metà, né il tocco della gioia; soltanto questo segno della tua vita che alla mia cammina. Finché la pioggia le cancelli, e resti la verità cui ci svegliò il mattino; felicità o dolore non sappiamo. Traduzione di Silvio Raffo
Poesia n. 294 Giugno 2014 Philip Larkin. Lettere dall’esilio a cura di Silvio Raffo
Respiran lievi gli altissimi abeti racchiusi nel manto di neve. Più morbido e folto quel bianco splendore riveste ogni ramo via via. Le candide strade si fanno più zitte: le stanze raccolte più intente. Rintoccano l’ore. Ne vibra percosso ogni bimbo tremando. Di sovra gli alari, lo schianto d’un ciocco che in lampi e faville rovina. In niveo brillar di lustrini, il candido giorno là fuori s’accresce, divien sempiterno Infinito.
Non aver paura, sono io. Non senti che su te m’infrango con tutti i sensi? Ha messo ali il mio cuore e ora vola candido attorno al tuo viso. Non vedi la mia anima innanzi a te adorna di silenzio? E la mia preghiera di maggio non matura al tuo sguardo come su un albero? Se sogni, sono il tuo sogno ma se sei desto sono il tuo volere; padrone d’ogni splendore m’inarco, silenzio stellato, sulla bizzarra città del tempo.
Tutto ciò su lei stava ed era il mondo, stava su lei con tutto, pietà e ansia, come alberi che crescono diritti; tutto immagine, eppure senza immagini, come arca dell’alleanza, e solenne, come rivolto a un popolo. E lei lo sosteneva tutto intero, ciò che vola, che fugge, che è lontano, l’immenso, il non appreso ancora, calma come la portatrice d’acqua regge la brocca colma. Finché a mezzo il gioco, trasformando e altro preparando, insensibile il primo velo bianco sul volto aperto adagio scivolò, diafano quasi e per non più levarsi, e chi sa come a ogni domanda una sola, vaga risposta replicando: in te, che un tempo fosti bambina, in te.
Als das Kind Kind war, ging es mit hängenden Armen, wollte der Bach sei ein Fluß, der Fluß sei ein Strom, und diese Pfütze das Meer. Als das Kind Kind war, wußte es nicht, daß es Kind war, alles war ihm beseelt, und alle Seelen waren eins. Als das Kind Kind war, hatte es von nichts eine Meinung, hatte keine Gewohnheit, saß oft im Schneidersitz, lief aus dem Stand, hatte einen Wirbel im Haar und machte kein Gesicht beim fotografieren. Als das Kind Kind war, war es die Zeit der folgenden Fragen: Warum bin ich ich und warum nicht du? Warum bin ich hier und warum nicht dort? Wann begann die Zeit und wo endet der Raum? Ist das Leben unter der Sonne nicht bloß ein Traum? Ist was ich sehe und höre und rieche nicht bloß der Schein einer Welt vor der Welt? Gibt es tatsächlich das Böse und Leute, die wirklich die Bösen sind? Wie kann es sein, daß ich, der ich bin, bevor ich wurde, nicht war, und daß einmal ich, der ich bin, nicht mehr der ich bin, sein werde? Als das Kind Kind war, würgte es am Spinat, an den Erbsen, am Milchreis, und am gedünsteten Blumenkohl. und ißt jetzt das alles und nicht nur zur Not. Als das Kind Kind war, erwachte es einmal in einem fremden Bett und jetzt immer wieder, erschienen ihm viele Menschen schön und jetzt nur noch im Glücksfall, stellte es sich klar ein Paradies vor und kann es jetzt höchstens ahnen, konnte es sich Nichts nicht denken und schaudert heute davor. Als das Kind Kind war, spielte es mit Begeisterung und jetzt, so ganz bei der Sache wie damals, nur noch, wenn diese Sache seine Arbeit ist. Als das Kind Kind war, genügten ihm als Nahrung Apfel, Brot, und so ist es immer noch. Als das Kind Kind war, fielen ihm die Beeren wie nur Beeren in die Hand und jetzt immer noch, machten ihm die frischen Walnüsse eine rauhe Zunge und jetzt immer noch, hatte es auf jedem Berg die Sehnsucht nach dem immer höheren Berg, und in jeder Stadt die Sehnsucht nach der noch größeren Stadt, und das ist immer noch so, griff im Wipfel eines Baums nach dem Kirschen in einemHochgefühl wie auch heute noch, eine Scheu vor jedem Fremden und hat sie immer noch, wartete es auf den ersten Schnee, und wartet so immer noch. Als das Kind Kind war, warf es einen Stock als Lanze gegen den Baum, und sie zittert da heute noch. Peter Handke (Griffen, 1942), Canzone dell’infanzia, inIl cielo sopra Berlino di Wim Wenders(1987) Quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese, voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente e questa pozza il mare. Quando il bambino era bambino, non sapeva d’essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano untutt’uno. Quando il bambino era bambino, su niente aveva un’opinione, non aveva abitudini, sedeva spesso a gambeincrociate e di colpo sgusciava via, aveva un vortice tra i capelli e non faceva facce da fotografo. Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu? perché sono qui, e perché non sono lì? quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? la vita sotto il sole è forse solo un sogno? non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro? c’è veramente il male e gente veramente cattiva? come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che, una volta, io, che sono io, non sarò più quello che sono? Quando il bambino era bambino, si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte, e con il cavolfiore bollito, e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità. Quando il bambino era bambino, una volta si svegliò in un letto sconosciuto, e adesso questo gli succede sempre. Molte persone gli sembravan belle, e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna. Si immaginava chiaramente il Paradiso, e adesso riesce appena a sospettarlo, non riusciva a immaginarsi il nulla, e oggi trema alla sua idea. Quando il bambino era bambino, giocava con entusiasmo, e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora, soltanto quando questa cosa è il suo lavoro. Quando il bambino era bambino, per nutrirsi gli bastavano pane e mela, ed è ancora così. Quando il bambino era bambino, le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere, ed è ancora così, le noci fresche gli raspavano la lingua, ed è ancora così, a ogni monte, sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta, e in ogni città, sentiva nostalgia d’una città ancora più grande, e questo è ancora così, sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico, com’èancora oggi, aveva timore davanti a ogni estraneo, e continua ad averlo, aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla. Quando il bambino era bambino, lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia, che ancora continua a vibrare. (Adattamento italiano dei dialoghi del film)
Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende benedette le mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta.
Come una indefinibile fata d’ombre… Vien da lungi la Sera, camminando per l’abetaia tacita e nevosa. Poi, contro tutte le finestre preme le sue gelide guance e, zitta, origlia! Si fa silenzio, allora, in ogni casa. Siedono i vecchi, meditando. I bimbi non si attentano ancora ai loro giochi! Le madri stanno siccome regine. Cade di mano alle fantesche il fuso. La Sera ascolta, trepida pei vetri: tutti, all’interno, ascoltano la Sera.
La mia vita non è quest’ora ripida che mi vedi scalare in fretta. Sono un albero innanzi all’orizzonte, una delle mie molte bocche, e la prima a chiudersi. Sono l’attimo tra due suoni che male s’accordano perché il suono morte vuole emergere – Ma nella pausa buia si riconciliano entrambi tremando. E bello resta il canto.
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