Povero Nord

Mark Strand

Mark Strand

Fa freddo, la neve è alta,
il vento sbatte nella sua gabbia di piante,
le nuvole paiono stracci sozzi e laceri per l’uso,
e gli storni becchettano il ghiaccio.
È il nord, povero nord. Niente va bene.
Il capofamiglia è andato al lavoro,
vende sedie e sofà in un negozio che sta per fallire.
La moglie sta a casa e fissa dalla finestra le piante,
cerca di ricordare la vita che ha perso, anche se non era un granché.
Fiori bianchi di brina sbocciano sul vetro.
È quasi sera. Anatre e oche canadesi dormono
sulle acque della baia di Saint Margaret.
Marito e moglie passeggiano: guardate come si piegano
controvento; alzano il bavero
e i minuscoli sbuffi del loro respiro volano via.
(in M. Strand, Il futuro non è più quello di una volta, a cura di D. Abeni, Minimum fax, 2006).
Ha scritto Giorgio Agamben che la fotografia è «il luogo del Giudizio Universale», perché «rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno». Credo che la stessa cosa si possa dire di certe poesie: uno sguardo, uno scatto nitido in cui quello che si vede diventa definitivo, indimenticabile. Non solo per gli elementi del quadro, ma anche per il significato che quella scena – minima, quotidiana, tutto sommato banale – assume una volta che qualcuno l’abbia fotografata, trasposta in versi. È il caso di questa poesia di Mark Strand (Canada, 1934), nella bella traduzione di Damiano Abeni: il freddo del nord, persone precarie (un negoziante che sta per fallire, una donna insoddisfatta), delle anatre che dormono, due che passeggiano nel freddo e i loro respiri portati via dal vento: un flash sull’orlo del nulla, della rovina, ma che a questo nulla, a questa rovina si oppone con la forza della sua memorabilità.
Massimo Gezzi