Les Murray
Niente, in fondo. Molta fantascienza
ci è ambientata, ma non ne tratta. Così le profezie.
Non piega gli steli al millefoglio. Il cristallo è uno specchio.
Anche l’uomo che abbiamo inchiodato
di vedetta a un albero ha saputo dirne poco;
giusto che sarebbe venuto il male.
Ne vediamo, per convenzione, un pezzo piuttosto breve,
ma anche quella è una congettura. E ogni congettura
non sa seguire il suo snodarsi.
È un buco nero
da cui non arriva alcuna radiazione.
Le ordinarie e magnifiche strade delle nostre vite
si portano per paesaggi urbani e selvaggi,
o per pendii franosi, improvvisi, fino a un baratro
dove non ci sarà che quello che ci abbiamo
spedito, compattato, orbitante – eccetto forse noi, per poterlo vedere.
Si dice che ne vediamo l’inizio. Ma da qui non c’è che cecità.
La fossa scavata che inghiottirà il nostro presente
ci rende ciechi per quel sole che si può immaginare
ordinario, mentre splende calmo
dal punto più lontano, per altre persone
nella loro giornata tipo. Un giorno in cui
ogni nostro ritratto, ideale, rivoluzione,
paio di jeans, deshabillé
si farà stranamente malinconico. Impossibile
vedere quella gente, salutarla patetico.
Comincio, tuttavia: “Quand’ero vivo” – e già mi sono girato
ritrovandomi a guardare un allegro picnic,
le donne in mussola e guanti
a gambe coperte, secondo decenza,
gli uomini con barba e gilè,
lunghi sigari, bei pantaloni,
a rilassarsi sotto una veranda
in pietra. A Ceylon o a Sydney.
E mentre guardo, so che sono tutti
svaniti, ciascuno nel suo giorno,
con cuscino, bottiglie, nebbia,
con tutti i futuri sognati progettati,
scendendo in quell’abisso cui tutto si avvicina;
come l’uomo sull’albero, sono svaniti nel futuro.