Franco Buffoni
Come una spiga di grano matto
serrata tra dita passando,
o sul ramo della robinia
le foglie verso la mano.
La ghiaia con l’erba da conto
nel giardino. Poltiglia carnosa
lampadine
le mutandine tra le gambe.
Non difesa dal vetro, la pazienza
dello scrigno usando come magazzino,
alzava i piedi l’uno contro l’altro
perché gli ornamenti nascosti
conoscessero amanti, e cibo
notturno divenissero
di mani nere.
Il suo nome non era che una confusione
di sillabe. Semplice e muta
come un mandarino
Fermamente tenuta di pietà giusta
la mano sulla nuca.
E stava attaccata al telefono
come un’ape piccola,
ma il fiore lontano era incerto,
considerava l’opportunità
giocherellando coi gettoni.
E il freddo non era più
freddo soltanto,
e il caldo caldo.
Portava ogni giorno
qualche altra domanda nelle ossa
come una proroga al solstizio
e poi di nuovo all’ombra.
E le curve dei giorni
sempre un po’
più ampie.
Questa non è la mia casa, lo so.
Me ne sono accorta da lontano,
per la domanda difensiva d’offesa
come carta coperta di muschio
lasciata a posto per disciplina,
ridotta in punta di piedi a lucciola bruna
e d’angolo,
senza distinzione al punto di luce visibile.
C’era ancora abbastanza prato
per la neve lì davanti
piccozze brune rododendri.
Aveva buchi nei polmoni
e il fiato
veniva come ghiaccio
per lago d’acqua che tramonta.
Timor di Dio non farmi respirare
più.
Da Suora carmelitana, 1997